Pakistan, una strage con molti mandanti
Pakistan, a Quetta, nell’Ovest del paese, tre terroristi suicidi hanno ucciso 61 fra allievi della scuola di polizia e guardie armate prima di essere uccisi a loro volta. Le autorità puntano il dito sulla sigla terrorista Lashkar e Jhangvi (la stessa che uccise Daniel Pearl), ma anche lo Stato Islamico rivendica.
Pakistan, a Quetta, nell’Ovest del paese, si è consumata una tragedia che si è già ripetuta molte volte. Nella locale scuola di polizia, nel dormitorio dove alloggiavano circa 700 allievi, tre terroristi suicidi hanno fatto irruzione sparando a tutti indistintamente. Prima di morire, hanno lasciato, dietro di sé, una lunga scia di sangue: 61 le vittime e 170 i feriti, secondo un bilancio stilato a ventiquattro ore dal massacro. E’ uno dei più sanguinosi attentati contro un obiettivo delle forze di sicurezza nella storia recente del paese.
I fatti risalgono alla notte fra lunedì 24 ottobre e martedì, ma ricordano molto da vicino quelli del massacro nella scuola riservata ai figli degli ufficiali a Peshawar, nel dicembre 2014, una tragedia nazionale (150 morti in quell’occasione) che resta indelebile nella memoria della popolazione. E poi ancora la strage degli studenti nel college di Charsadda, nel gennaio scorso: 22 morti e 50 feriti. Anche in questo caso, ieri notte è stata assalita una scuola. E non una scuola qualunque, ma quella che forma i futuri poliziotti, dunque anche un simbolo dello Stato. Ad attaccare le scuole sono soprattutto i Talebani, molto attivi nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan. Lo fanno per motivi ideologici, perché condannano ogni istruzione al di fuori di quella islamica. Nel caso della scuola di Peshawar, i terroristi volevano deliberatamente uccidere i figli degli ufficiali dell’esercito che li combatte nelle aree tribali. Anche nell’attentato di Charsadda, la rivendicazione, rilasciata da una cellula dei Talebani (anche se il comando centrale del movimento jihadista ha preso le distanze) parlava chiaramente di “vendetta” contro lo Stato. La strage di ieri, a Quetta, si inserisce nella stessa categoria. E le autorità pakistane accusano, per questo motivo, un movimento legato ai Talebani, Lashkar e Jhangvi (LeJ), responsabile di gravi atti di terrorismo internazionale (fra cui il rapimento e l’uccisione del giornalista Daniel Pearl) e di violenze settarie contro la minoranza sciita del paese.
Quetta è una roccaforte talebana stranamente ignorata dal governo e dall’esercito. Mentre le operazioni militari si sono concentrate più a Nord, Quetta era diventata una base logistica per i Talebani che combattevano nel Sud dell’Afghanistan (Kandahar, soprattutto), l’area da loro maggiormente controllata per tutta la prima fase del conflitto. La città ha assistito a un’escalation di terrorismo soprattutto negli ultimi tempi. Lo scorso agosto era stato assassinato da un killer l’avvocato Bilal Anwar Kasi, presidente del locale Ordine degli Avvocati. E’ stata una trappola: l’8 agosto i Talebani hanno attaccato l’ospedale in cui si erano riuniti tutti i suoi colleghi per rendere omaggio alla salma. I morti, in quell’occasione, sono stati 70, secondo altre fonti quasi 100. Dopo l’attacco dei terroristi suicidi, la rivendicazione era arrivata sia dai Talebani che dallo Stato Islamico. L’attentato contro l’ospedale e l’uccisione dell’avvocato Kasi avevano creato un clima di tensione che un giornalista racconta così, ai microfoni della BBC: “Quando ci siamo riuniti in un paio di conferenze al Quetta Press Club, avevamo tutte le porte sigillate e solo alcuni giornalisti accreditati potevano entrare. La paura serpeggiava in città e la gente non poteva fare a meno di chiedersi dove e quando i terroristi avrebbero colpito ancora”.
Alla fine la risposta è arrivata ieri notte, alla scuola di polizia nel sobborgo di Sariab. Non si tratta di un bersaglio inedito. Già era stata colpita due volte dalle formazioni terroristiche legate ai Talebani, l’ultima nel 2008. Ripetendo lo stesso copione delle stragi precedenti, i terroristi sono entrati nei dormitori, prima con l’inganno, facendosi credere militari dell’esercito, poi con la forza, abbattendo le porte o lanciando le loro bombe a mano dalle finestre. Si sono salvati quelli che ce l’hanno fatta a ripararsi o nascondersi, sotto i letti o negli armadi, oppure chi ha trovato una finestra libera da cui saltare. Ne è seguito un sanguinoso e lungo scontro a fuoco, conclusosi dopo ben quattro ore con la morte di tutti e tre gli attentatori: due si sono fatti esplodere con le loro cinture esplosive, un terzo è stato abbattuto dalle Guardie di Frontiera, accorse sul posto per contribuire a proteggere la struttura.
La prima rivendicazione è giunta dallo Stato Islamico, tramite la sua agenzia ufficiale Amaq. Le autorità pakistane parlano però di LeJ come autrice della strage, perché ritiene di aver sufficienti elementi per incolpare quella sigla terroristica, intercettazioni telefoniche soprattutto. I capi terroristi di Quetta avrebbero agito dietro istruzioni dal vicino Afghanistan, principale roccaforte del gruppo. Più tardi è arrivata la rivendicazione della cellula Al Alami, appartenente a LeJ. La terza rivendicazione è giunta dalla cellula dei Talebani chiamata Gruppo Hakimullah. E infine, una quarta rivendicazione proviene da un’altra sigla ancora, quella dei Talebani di Karachi, finora sconosciuta. L’imitazione e il millantato credito sono molto diffusi nel variegato mondo jihadista. Ma lo Stato Islamico, tramite la sua agenzia, ha anche fornito una prova: la foto dei membri del commando suicida. Se si tratta di foto autentiche e le autorità saranno in grado di confermarle, la rivendicazione dello Stato Islamico apparirà come la più credibile. Gli jihadisti di Al Baghdadi operano in Pakistan dall’anno scorso, inizialmente sotto il comando Hafiz Said Khan, ucciso in un raid aereo americano lo scorso luglio. Nonostante la decapitazione del suo vertice, il gruppo sarebbe ancora operativo.