Organi da prigionieri vivi, le prove dell'orrore in Cina
Fra tutti i sospetti che ricadono sul regime comunista cinese, il più terribile riguarda il traffico di organi prelevati dai prigionieri. Una nuova ricerca pubblicata su American Journal of Transplantation ha trovato una “pistola fumante”
Fra tutti i sospetti che ricadono sul regime comunista cinese, il più terribile riguarda il traffico di organi prelevati dai prigionieri. Una nuova ricerca pubblicata su American Journal of Transplantation, di Jacob Lavee (medico chirurgo, israeliano) e Matthew Robertson (ricercatore di Relazioni Internazionali, australiano), ha trovato una “pistola fumante”, una prova certa che in Cina, almeno dal 1980 al 2015, sono stati prelevati organi da pazienti vivi. Dunque sono state uccise persone per raccogliere i loro organi. E c’è il sospetto (fondato) che la pratica continui tuttora, nello Xinjiang.
Il governo della Repubblica Popolare Cinese afferma di seguire le linee guida dell’Oms sui trapianti. Il 21 marzo 2007 il Consiglio di Stato cinese ha promulgato il Regolamento per il trapianto degli organi umani, stabilendo che fosse lecito solo da donatori volontari e gratuito. Il 3 dicembre 2014, sempre il governo cinese ha dichiarato che gli organi potessero essere prelevati solo da cittadini cinesi donatori volontari. E il 1° gennaio 2015 ha vietato i trapianti da prigionieri. Nel 2017, la Cina aveva partecipato al summit del Vaticano sul traffico di organi, sollevando numerose polemiche, ma presentandosi “ripulita” dalle accuse degli anni precedenti, proprio grazie al divieto introdotto nel 2015. Di quel che è successo prima è rimasta una nube di sospetti, alimentata da tanti indizi, ma mai una prova vera e propria.
La ricerca pubblicata questa settimana dimostra che vi siano state violazioni sistematiche dell’etica dei trapianti. E’ una prova, una “pistola fumante” per usare un gergo poliziesco, contenuta in 71 articoli scientifici cinesi, consultabili liberamente in lingua originale. «In lingua inglese non si trova nulla di simile», ha spiegato il dottor Lavee al quotidiano israeliano Haaretz, spiegando come fosse possibile che i cinesi ammettessero così candidamente il loro crimine. Probabilmente perché non si aspettavano che, dopo anni, qualche ricercatore occidentale andasse a scandagliare gli articoli in lingua cinese.
Su quasi tremila articoli passati in rassegna, 71 documenti rivelano che i medici cinesi non abbiano accertato la condizione di morte cerebrale prima di estrarre gli organi dal donatore. Quindi hanno violato la regola etica del donatore morto. «Le frasi (degli articoli, ndr) mostrano di volta in volta che il “donatore” dell’organo è stato ventilato solo dopo l'inizio dell'intervento chirurgico – spiega ancora Lavee - oppure è stato ventilato solo con una maschera, prova che il “donatore” aveva respirato autonomamente, senza ventilazione, fino all'operazione». Questi non erano casi sporadici, secondo i risultati di questa ricerca erano un “sistema”. Gli interventi descritti, infatti, sono avvenuti in un periodo di 35 anni (1980-2015), in 33 città, in 15 province, in 56 ospedali diversi. Dunque: avveniva continuamente in tutta la Cina.
Inoltre, dalla ricerca australiano-israeliana risulta che i cinesi abbiano violato un’altra regola: medici erano presenti nei luoghi di esecuzione dei prigionieri. Ed erano i prigionieri i principali “donatori” non volontari. Per ammissione delle stesse autorità della Repubblica Popolare, “il 95% degli organi per i trapianti vengono da prigionieri”, come aveva affermato nel 2007 Huang Jiefu, allora alto dirigente sanitario a capo delle attività di trapianti di organi umani. C’era uno stretto coordinamento fra medici e apparato poliziesco, sul luogo dell'esecuzione.
Ma davvero non si è più fatto traffico di organi dei prigionieri dopo il 2015? Non vi sono prove per affermare che continui tuttora. Ma gli indizi ci sono. Prima di tutto, in Cina i tempi per un trapianto sono ancora molto brevi, in modo sospetto: non mesi o anni di attesa, ma poche settimane. Poi, secondo testimonianze e prove raccolte dal Tribunale Uiguro (con sede a Londra), prigionieri di etnia uigura nei campi di internamento sono stati sottoposti a esami medici per verificare la corrispondenza degli organi da trapiantare. Secondo gli attivisti del Tribunale, nello Xinjiang vengono uccisi, per il prelievo degli organi, da 60mila a 100mila prigionieri all’anno.