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UE-USA

Accordo sui dazi, fine del velleitarismo europeo

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L'accordo raggiunto in Scozia tra Donald Trump e Ursula von der Leyen ha una valenza politica prima ancora che economica: l'Unione Europea rinuncia a svolgere un ruolo autunomo di potenza sullo scacchiere internazionale e rientra nell'area politico-economica occidentale sotto l'egemonia statunitense.

Esteri 29_07_2025

Per comprendere pienamente il significato dell'accordo sui dazi raggiunto tra Stati e Uniti e Unione Europea, annunciato nell'incontro in Scozia tra Donald Trump e Ursula von der Leyen, non ci si può limitare a un calcolo aritmetico dei vantaggi e degli svantaggi puramente economici, ma se ne deve inquadrare la sostanza squisitamente politica.

Da questo punto di vista, va detto innanzitutto che esso rappresenta impietosamente, sia nella forma che nei contenuti, il ridimensionamento dell'Europa nel mondo, e il fallimento delle ambizioni dell'Unione come sua governance. E che costituisce una tappa ulteriore nel processo di riallineamento dell'Europa agli Stati Uniti, cominciato sotto la presidenza di Biden, e portato avanti con ancora maggior decisione da Trump, nella logica di un netto bipolarismo tra blocchi guidati rispettivamente da Stati Uniti e Cina.

L'aspetto più importante dell'accordo Usa/Ue non è tanto, infatti, il dazio generalizzato del 15% imposto alle merci europee, quanto l'impegno dell'Ue ad acquistare gas e armamenti statunitensi per 750 miliardi, che si somma a quello già preso in sede Nato per l'acquisto di armi americane da destinare all'Ucraina. A quell'impegno si aggiunge l'azzeramento delle tariffe per alcuni settori strategici (aeromobili, semiconduttori, risorse minerarie e altro), che configura un ulteriore compattamento politico, tecnologico e militare tra le due sponde dell'Atlantico. A dispetto di chi – come il presidente francese Emmanuel Macron – predicava una reazione bellicosa ai dazi trumpiani, l'uso del "bazooka" e lo scatenamento di una guerra commerciale, e dopo aver scontato la difficoltà di fondo di rappresentare nelle trattative interessi nazionali estremamente diversi e spesso confliggenti, l'Ue prende atto, tardivamente ma realisticamente, che le conviene accettare il male minore, e rafforzare l'integrazione complessiva con gli Stati Uniti.

Nel periodo del disordine multipolare, durato fino alla presidenza di Barack Obama, l'Ue a trazione franco-tedesca aveva coltivato l'ambizione di svolgere un ruolo autonomo di soft power nel mondo globalizzato, non rinunciando ai rapporti transatlantici ma giocando su molti tavoli, e stringendo forti legami economici e politici con la Cina, la Russia e il mondo arabo-islamico, comprese le sue frange più anti-occidentali come Iran e Qatar. La prima offensiva trumpiana sui dazi, poi lo scoppio della guerra russo-ucraina e il brusco richiamo all'ordine lanciato da parte dell'amministrazione Biden (il cui momento simbolicamente più pregnante è stato il "taglio" del gasdotto North Stream 2), hanno posto drammaticamente in rilievo l'inconsistenza velleitaria di quel disegno. Ma la classe dirigente Ue, rappresentata dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen, aveva sperato di poter continuare a conservare intatto, grazie ai buoni rapporti con il mondo Dem americano, un "fortino" costituito da una struttura di potere verticistica e dirigistica, protetta da una fittissima rete di iper-regolamentazioni, al fine di lucrare ancora su esportazioni a basso costo verso gli Stati Uniti, e tenendo ancora le porte aperte all'influenza cinese: le importazioni dalla quale venivano ulteriormente favorite con il Green Deal, sacrificando a Pechino l'automotive continentale e sperando poi di rimpiazzarlo con il "Rearm Europe".

L'arrivo del "nuovo sceriffo in città" (per citare la felice formula usata dal vicepresidente statunitense J.D. Vance) ha scompaginato totalmente i piani dei "mandarini" di Bruxelles, e degli interessi da loro favoriti. La seconda, grande offensiva sui dazi lanciata da Trump non è stata soltanto guidata dall'obiettivo di riequilibrare il drammatico squilibrio della bilancia commerciale americana, riportando il più possibile produzione e investimenti sul suolo nazionale. Essa risponde soprattutto a un disegno di politica di potenza: la definizione e il rafforzamento di un'area politico-economica del mondo sotto l'indiscutibile egemonia di Washington, nel contesto di una nuova guerra fredda, in cui il controllo delle filiere di approvvigionamento, delle materie prime, della tecnologia digitale, delle vie di comunicazione rappresenta un elemento essenziale.

Il Regno Unito, evitando nocive contrapposizioni, ha scelto fin dall'inizio di assecondare questo progetto, e ha concluso con Trump un accordo sui dazi tra i più vantaggiosi finora siglati. Nell'Ue, invece, le insofferenze anti-trumpiane e le spinte per un approccio conflittuale, non sostenute da strumenti plausibili di persuasione, hanno danneggiato enormemente la trattativa, provocando irritazione nell'interlocutore, e creando le condizioni per un esito apertamente punitivo di dazi al 30% che sarebbe stato rovinoso per il vecchio continente. Davanti a questa deriva, governi e negoziatori Ue sono addivenuti a più miti consigli, accettando un compromesso onorevole e dando segni di entrare almeno nell'ordine di idee di un Occidente ricompattato, promosso dal presidente Usa.

Tuttavia, i "mandarini" si sono ben guardati di fare il passo ulteriore, che avrebbe potuto dare tutt'altra prospettiva all'accordo, e farne l'occasione di un cambiamento sostanziale della filosofia stessa su cui il blocco di potere della classe dirigente Ue si è consolidato. Questo passo avrebbe dovuto essere almeno l'inizio di uno smantellamento dell'intricata armatura di barriere non daziarie, verso l'esterno e all'interno dell'Unione: iper-regolamentazioni, burocrazia asfissiante, vincoli finanziari e fiscali. E l'abbandono – che sarà comunque inevitabile nel tempo – della folle ideologia del Green Deal.

Purtroppo, il "fortino" rimane in piedi, probabilmente soprattutto perché i "mandarini" della "maggioranza Ursula" temono che se esso cadesse, il loro destino politico, costruito su di esso, sarebbe segnato. E a ciò si aggiunge il fatto che, nonostante l'abbandono, per fortuna, del suicida proposito di tassare le Big Tech americane – che, se attuato, ci avrebbe condannati al nanismo digitale - le classi dirigenti Ue continuano a tenere ostinatamente in vigore il Digital Service Act e a pretendere di strozzare il libero dibattito e l'innovazione nel campo mediatico e tecnologico. Questi irrigidimenti continueranno a impedire lo sviluppo di un'area transatlantica pienamente integrata e solidale, e ad alimentare le diffidenze dell'amministrazione Trump verso gli interlocutori europei.