“Omosessualità è di natura”: Milano supera il Segno
Il mensile della Chiesa di Milano Il Segno dedica la copertina di ottobre al “tabù omosessualità". Un concentrato di tesi per normalizzare la condizione gay, accettarla come "di natura" e "espressione di amore cristiano". Le solite fonti: da Fumagalli a Padre Piva a suor Giuliana Galli all'insegna del "nessuna condanna". E il solito Moia che arriva pure a rimproverare alla Chiesa di aver sbarrato la strada ai gay con una dottrina chiusa. L'immagine è quella di una Chiesa aperta da tutti i lati. Sì, così aperta che fa acqua da tutte le parti.
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Da tempi immemori, la Chiesa è stata considerata come la nuova arca noachica, che salva quanti vi entrano dalle acque mortifere del peccato e del mondo. O ancora come una barca, capace di rimanere a galla in mezzo ai marosi della storia. A Fabio Landi, direttore del mensile della diocesi di Milano Il Segno, piace invece lanciare l’immagine di una Chiesa “aperta da tutti i lati”. Che, se associata all’immagine tradizionale della Chiesa arca/barca, non dona un’idea molto rassicurante del Corpo mistico di Cristo.
Il riferimento è alla chiesa di San Carlo al Lazzaretto di Milano, oggi in zona Porta Venezia, ma all’epoca dell’erezione del piccolo altare, alla fine del XV secolo, era la zona dedicata al lazzaretto. Più precisamente, l’altare era collocato al centro del lazzaretto, di modo che potesse essere visto da ogni punto. Lì, circa un secolo dopo, all’epoca della “peste di San Carlo”, il grande vescovo di Milano dispose la costruzione di un edificio ottagonale, con una singolare caratteristica: doveva rimanere aperto da tutti i lati, per permettere la visione delle celebrazioni liturgiche a tutti gli appestati ed impedire che rimanessero privi della vita liturgica sacramentale della Chiesa, nel momento della grande prova. Il raffronto con quanto abbiamo vissuto al tempo della pandemia Covid-19 è piuttosto evidente, ma non è l’argomento di questo articolo.
Torniamo all’editoriale del numero di ottobre di Fabio Landi (in foto); questo esempio architettonico di sublime carità è stato completamente distorto nel suo significato. Ci informa infatti il direttore che esso è stato scelto per la celebrazione mensile animata da un gruppo di fedeli omosessuali, divenendo, con tale iniziativa, «il ritratto della Chiesa così fortemente voluta da Francesco: aperta, accessibile, essenziale, per mostrare Dio a tutti». L’effetto nemmeno troppo collaterale è quello di una Chiesa talmente aperta da far acqua da tutte le parti, come documenta l’approfondimento interno curato da Laura Badaracchi.
I “Giovani del Guado” oggi conta circa settanta persone di svariati orientamenti sessuali, che scorrazzano tra parrocchie, oratori e associazioni presenti nella Diocesi di Milano per farsi conoscere ed organizzare ritiri per dare spazio «ai momenti di convivialità e alla preghiera, alla riflessione e formazione su vari temi», spiega uno dei coordinatori, Francesco Gagliardi. Tra questi temi compare anche «la vita di coppia». Iniziative che pare abbiano un grande successo e godano di molti aiuti: «Cerchiamo di invitare teologi, biblisti, sacerdoti per aiutarci: li troviamo facilmente, sono molto disponibili. Facciamo parte di una grande rete che ha ottimi contatti e ce li passa: oserei dire che siamo viziati». La vita del cattolico non LGBT non è così facilitata, specie se ha la sventura di essere etichettato come tradizionalista o conservatore; non che ce ne dispiaccia, bisognerebbe però avere almeno l’onestà di rivedere la retorica della mancanza di “inclusività”.
Nella Chiesa si moltiplicano le attività per normalizzare la condizione omosessuale. L’articolo presenta l’opera di “accompagnamento” del gesuita padre Pino Piva a Bologna e le iniziative di don Gabriele Davalli, il direttore dell’Ufficio famiglia della diocesi felsinea, quello della benedizione della coppia gay “sposatasi” civilmente a Budrio (vedi qui). Si parla del gruppo Zaccheo, voluto dal vescovo di San Severo, Mons. Giovanni Checchinato: tutto all’insegna del superare i preconcetti e andare al di là degli stereotipi. Al di là anche dell’insegnamento della Chiesa?
La domanda viene rivolta a don Aristide Fumagalli (in foto), zelante sostenitore della nuova linea morale della Chiesa post-Amoris Laetitia, quella del bene possibile attraverso il male reale. Il teologo risponde che «la dottrina del Magistero non esclude che la persona omosessuale possa corrispondere alla vocazione cristiana all’amore, ma nega la legittimità morale di un amore che volesse esprimersi anche sessualmente». Bene.
Tuttavia, nel suo saggio L’amore impossibile. Persone omosessuali e morale cristiana, sostiene l’idea di un’identità omosessuale che non può e non dev’essere riconsiderata, ma riconosciuta ed accettata. Secondo la presentazione che ne ha fatto Luciano Moia (vedi qui), per Fumagalli «la condanna degli atti o omosessuali, “non contempla la possibilità, sconosciuta sino all’epoca contemporanea, che gli atti omosessuali corrispondano alla natura della persona ed esprimano l’amore personale”. Non quindi atti dettati da «idolatria religiosa ed egoismo edonistico» – le due condizioni che li rendono inaccettabili – ma “espressione di amore personale cristiano”. Fumagalli parte da un dato scientifico che non si può ignorare. Oggi gli studiosi sono in gran parte concordi nel considerare l’omosessualità “espressione di una condizione esistenziale che costituisce e pervade, similmente all’eterosessualità, l’identità della persona”».
Anche Moia trova nell’articolo spazio più che sufficiente per pontificare, esibendo tutto un frasario che più stereotipato non si può. Prima se la prende con la Chiesa, che avrebbe esercitato «per troppo tempo […] un forte controllo delle coscienze, evitando una crescita educativa». In questo modo, «ha chiuso la strada a qualsiasi spazio di discernimento personale e per troppo tempo ha continuato a proporre una dottrina “chiusa”, senza accorgersi che l’insistenza su norme morali, ormai dichiarate inattuali dal tribunale della storia, rischiano di mettere in sordina l’annuncio cristiano».
La dottrina della Chiesa viene accantonata dal “tribunale della storia” – chissà cosa ne pensano nel “tribunale di Dio” -, e i suoi insegnamenti sulla questione derubricati a «dispute dottrinali e contese pastorali», che a giudizio di Moia, non devono essere risolti dal Magistero, ma dal discernimento esercitato dai laici. La strada che conduce a «costruire una dottrina da museo e schierarsi tutt’intorno per difenderla» dev’essere abbandonata a pro di «un giardino di relazioni» che accolgano le persone. Questo nuovo atteggiamento pastorale «è profondamente cambiato quasi ovunque grazie al magistero di Papa Francesco, che ha aperto la strada anche a uno sviluppo della dottrina».
Dulcis in fundo, spazio alla testimonianza di una donna. Tale suor Giuliana Galli, delle suore del Cottolengo, che, quasi alla soglia dei novant’anni, ha tirato le orecchie alla nota consorella che aveva allontanato due modelle, mentre posavano scambiandosi un bacio saffico, attirandosi così una valanga di sbeffeggiamenti da parte di quegli stessi media che poi invitano a non giudicare. Anche Suor Giuliana difende quella «posizione nella vita non riconosciuta e ritenuta vizio o malattia, mentre è un modo di essere e di vivere». «Un percorso alternativo, che va rispettato», per il quale bisogna deporre ogni rigidità. «Io non ho negazione da fare, né condanna da dire», conclude la religiosa.
E l’articolista trae l’originalissimo insegnamento morale della questione: «L’atteggiamento giusto, in ogni contesto: misericordia, non giudizio». Slogan passpartout per continuare ad aprire i vari lati della Chiesa.