Oltre la Juve: il riciclaggio padrone del calcio
La controversa vicenda delle plusvalenze fittizie del club bianconero su cui si abbatte la penalizzazione in classifica evidenzia due aspetti: i conflitti di interesse della Giustizia sportiva e soprattutto l'insostenibilità finanziaria del calcio europeo, ormai privilegiato veicolo di riciclaggio del denaro sporco.
La vicenda della penalizzazione della Juventus - si sa - è tutt’altro che conclusa: oltre alle motivazioni della sentenza della Corte d’appello, manca ancora il parere del Collegio di Garanzia del CONI che può annullare tutto e in più ci sono altri fronti aperti. Del resto nel calcio italiano abbiamo ben 5 gradi di giudizio e sul defunto Chievo abbiamo assistito a 27 (!) pronunciamenti in due anni, mentre ci sono controversie risalenti a 7-8 anni fa che devono essere ancora portate a sentenza definitiva. In attesa dunque degli sviluppi processuali sul club torinese (e non solo su di esso) conviene forse fare una riflessione generale su due aspetti che questa storia porta all’attenzione della pubblica opinione.
La prima è proprio sulla Giustizia sportiva. Qualcuno si sarà stupito che lo stesso Tribunale a distanza di otto mesi abbia espresso pareri opposti sulla colpevolezza del club bianconero in merito alle plusvalenze fittizie; è un organo – la Corte federale di appello – in cui uno solo sui sette componenti ha praticato la Magistratura. Ufficialmente la motivazione di tale discrepanza è che sono emersi altri elementi processuali segnalati al Tribunale dal procuratore, che ha chiesto la riapertura del processo: nuove prove portate alla luce dall’attività investigativa della Magistratura ordinaria.
Questo fatto è una costante della Giustizia sportiva. Sulle faccende più importanti si muove quasi esclusivamente a rimorchio della Giustizia ordinaria. Mancanza di mezzi? Difetto di professionalità? Solo in parte. La causa principale è il conflitto di interessi. Gli organismi inquirenti e giudicanti sono nominati dal Consiglio federale, dominato dai rappresentanti delle Leghe, cioè dai club che dovranno essere giudicati. In pratica i controllori sono nominati dai controllati. Illuminante a tal proposito la battuta attribuita al patron della Lazio Lotito: «Per gli amici la legge si interpreta e per i nemici si applica».
Un vizio d’origine che si riscontra anche su scala mondiale: vedi ad esempio gli organi di giustizia sportiva emanati dalle Federazioni internazionali e gli scandali che hanno coperto o avallato, prima che le Magistrature non sportive dei vari Paesi scoperchiassero la pentola. E a volte non basta neppure questo: basti ricordare ad esempio la notifica di reato contenuta nella Ordinanza del giudice di Bolzano Walter Pelino ignorata dal Comitato etico della Federazione internazionale di atletica semplicemente perché riguardava il suo vicedirettore e lasciata cadere – per quieto vivere – dalla Federazione italiana e dal CONI, sebbene avesse penalizzato un atleta italiano.
L’altro aspetto che evidenzia la vicenda delle plusvalenze fittizie e dei bilanci taroccati è che grandi club non riescono più a reggere l’onere finanziario di restare ai vertici del calcio europeo, per il semplice motivo che è diventato strutturalmente un business a perdere, cioè senza più compatibilità economica. Ci si chieda: perché un imprenditore o un gruppo finanziario dovrebbero investire su un mercato come quello del calcio professionistico ad alto livello dove non si fanno profitti ma solo perdite? Non tutti hanno alle spalle – come il Paris Saint Germain o il Manchester City – l’apparato finanziario di uno Stato ricco che investe sul calcio per autopromuoversi o per attività di lobby (e purtroppo non solo quelle). Gli oligarchi russi usavano il Chelsea per spostare capitali al sicuro, nella City londinese.
Gli altri grandi gruppi finanziari o magnati usano il calcio per ripulire denaro sporco? Molto più di una ipotesi. La mossa disperata di Andrea Agnelli e di club ad azionariato popolare come il Real Madrid e il Barcellona fu tentare di salvarsi con l’obbrobrio della SuperLega. Una risposta sbagliata a un problema che è giusto porsi, ma che ahimé in troppi fanno finta di non vedere.