Obiezione di coscienza, questa sconosciuta
Nell’ambito di un seminario alla Cattedra Wojtyla, il professor Mazurkiewicz ha fatto una buona sintesi sull’obiezione di coscienza, che va distinta dalla disobbedienza civile. Le norme (aborto, eutanasia, ecc.) contrarie alla retta ragione, e quindi alla legge di Dio, sono atti di violenza. E parlare di “libertà di coscienza” ha senso solo se la coscienza è davvero libera, cioè se capace di non rinunciare alla verità.
Lo scorso 4 dicembre il professor Piotr Mazurkiewicz, dell’Università Cattolica Stefan Wyszynski (Varsavia), ha tenuto una lezione intitolata «Il diritto all’obiezione di coscienza», nell’ambito di un seminario sulla libertà religiosa organizzato dalla Cattedra Karol Wojtyla del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. In più punti la lezione costituisce, nella sua trattazione classica, una buona sintesi sul tema (altri aspetti andrebbero maggiormente chiariti).
Innanzitutto Mazurkiewicz distingue opportunamente l’obiezione di coscienza dalla disobbedienza civile. Nel primo caso si contesta la norma, ma non necessariamente l’autorità che ha emanato la norma. Nella seconda ipotesi si contesta l’autorità e di conseguenza perdono di autorità anche gli atti del governante, tra cui le leggi. «L’obbedienza - spiega il docente - spetta all’autorità in virtù del bene comune. Relativamente a quelle decisioni prese da chi governa che siano in contrasto con il bene comune o con le fondamentali regole della ragione pratica non è vincolato l’obbligo di obbedienza».
In seconda battuta, rifacendosi all’insegnamento tommasiano e dunque agostiniano sulle leggi ingiuste, Mazurkiewicz chiarisce che una norma che non è conforme alla retta ragione, e quindi alla legge eterna promulgata da Dio, cessa di essere una legge e diventa piuttosto un vero e proprio atto di violenza. Odiernamente simili atti di violenza, che si rivestono formalmente degli abiti normativi, sono plurimi, come ricorda la relazione del docente polacco. Pensiamo alle leggi sull’aborto, sull’eutanasia, sulle unioni civili, sulle adozioni a favore di coppie omosessuali. In questi casi al medico, al sindaco, all’impiegato del comune non è moralmente consentito né di compiere atti intrinsecamente malvagi, né ordinariamente di collaborare ad essi. Norme che impongono tali condotte inique, «non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 73).
Mazurkiewicz ricorda che l’obiettore oggi è discriminato su più fronti: «Sanzioni penali, perdita di lavoro o dei salari non sono le uniche possibili manifestazioni di discriminazione. Sempre più spesso l'accesso ad alcune professioni mediche o specialità mediche è subordinata all’accettazione di praticare o di collaborare a procedure che privano intenzionalmente il paziente della vita. Agli obiettori vengono negate le promozioni in campo scientifico e nelle strutture amministrative delle unità mediche o nelle associazioni professionali».
Poi la relazione di Mazurkiewicz indaga il ruolo della coscienza e lo fa partendo da una riflessione di Giovanni Paolo II: «La coscienza, in un certo senso, pone l’uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa “testimone” per l’uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità morale. La coscienza è l’unico testimone: ciò che avviene nell’intimo della persona è coperto agli occhi di chiunque dall’esterno. Essa rivolge la sua testimonianza soltanto verso la persona stessa. […] Non si apprezzerà mai adeguatamente l’importanza di questo intimo dialogo dell’uomo con sé stesso. Ma, in realtà, questo è il dialogo dell’uomo con Dio, autore della legge, primo modello e fine ultimo dell’uomo. “La coscienza - scrive san Bonaventura - è come l’araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da sé stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l’editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di obbligare”» (Veritatis splendor, 57-58).
Va da sé che occorre seguire i dettami della coscienza solo se questa è retta. In caso contrario la cosiddetta libertà di coscienza diventa un lasciapassare per legittimare sul piano morale e poi giuridico qualsiasi aberrazione contraria alla dignità personale. A tal proposito Mazurkiewicz cita la Lettera al Duca di Norfolk di san John H. Newman: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri; ma al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento».
Opportunamente il docente polacco mette in evidenza che la corruzione della coscienza è da addebitarsi, il più delle volte, ai ricatti che provengono dal mondo. In buona sostanza la coscienza erra perché le fa comodo errare. Compito primario della coscienza diviene allora quello di sganciarsi dalle tentazioni del mondo. Così Mazurkiewicz: «La libertà di coscienza è di scarso valore per l’uomo se la coscienza stessa non è libera. Se è deformata dal processo di educazione, se è depravata dal peccato o addormentata in seguito alla banalità delle scelte quotidiane. Commentando il pensiero di Newman, scrive il card. Ratzinger: “Un uomo di coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità, l’andar d’accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e l’approvazione da parte dell’opinione dominante”. Confrontando il pensiero di Newman con l’esempio di vita di san Tommaso Moro, aggiunge: “Moro si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo dopo esitazioni e molte domande hanno costretto sé stessi ad obbedire alla coscienza, ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di qualsiasi istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale. Si evidenziano così due criteri per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non coincide con i propri desideri e coi propri gusti; essa non si identifica con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso di gruppo o con le esigenze del potere politico o sociale”. […] Non è dunque prudente dal punto di vista pastorale, come fa notare Giovanni Paolo II, dire “Segui sempre la tua coscienza”. Se si mancasse di ricordare l’obbligo di formazione della coscienza e di ricerca della verità l’uomo rischierebbe di fare della propria coscienza, anziché un luogo di incontro con Dio che rivela il vero bene, una forza distruttrice della sua propria umanità. Come ci insegna Reconciliatio et paenitentia (26) è necessario “formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non diventi ‘una forza distruttrice dell'umanità vera (della persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene’”».
Infine si indaga il tema della pedagogia della coscienza. E così chi erra, ma non sa di errare, si trova in una situazione assai più svantaggiata di chi erra, ma sa di errare. Perché il primo non potrà essere tratto dall’errore dato che non ne vuole uscire, intimamente convinto di essere nel giusto, non così per il secondo. Lasciando nuovamente la penna a Mazurkiewicz: «Il pubblicano evangelico è più giustificato del fariseo proprio perché il primo vede il proprio peccato e il secondo non lo scorge. Il fariseo infatti ha una coscienza serena, ma proprio tale serenità fa sì che la sua coscienza sia impermeabile a Dio e alle persone. Per questo, anche se sembra paradossale, al Signore Gesù è più facile convertire il grande peccatore che non si nasconde dietro al paravento della propria coscienza erronea, che salvare colui che, proprio perché convinto soggettivamente della propria rettitudine, rimane impenetrabile alla grazia divina. Proprio in tale contesto deve essere interpretato il monito di Giovanni Paolo II, che la coscienza “non è un assoluto, posto al di sopra della verità e dell’errore; anzi, la sua intima natura implica il rapporto con la verità obiettiva, universale e uguale per tutti, che tutti possono e devono cercare”» (Messaggio per la XXIV Giornata Mondiale della Pace, 1991).