Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
diritto canonico

Non bastano preti e laici a dichiarare il Papa illegittimo

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L'adesione pacifica e universale della Chiesa non si applicherebbe a Francesco, per chi sostiene l’invalidità della sua elezione, data la presenza di voci discordanti. Che però non sono sufficienti: se così fosse nessun pontificato sarebbe al riparo.

Ecclesia 21_10_2024 English Español
La Presse (AP Photo/Gregorio Borgia)

Nell'articolo precedente, dedicato allo scritto Non consegnerò il Leone, di padre Giorgio Maria Faré, avevamo lasciato in sospeso due questioni: che la dottrina dell'adesione pacifica e universale (APU) della Chiesa contraddica il diritto canonico; che in ogni modo tale dottrina non si applicherebbe alla situazione presente.
Iniziamo con la seconda e vediamo la spiegazione di Faré: «se anche si ritenesse valido il principio [dell'APU, n.d.a.], non sarebbe applicabile al caso che stiamo affrontando perché esso presuppone una profonda comunione e consenso all'interno della Chiesa stessa, elementi attualmente inficiati dalla presenza di numerose voci discordanti e persistenti nel tempo, per quanto minoritarie». Queste voci discordanti impedirebbero pertanto di parlare di un consenso pacifico universale. Inoltre, quei fedeli che aderiscono a Bergoglio come Papa, o almeno una parte di essi, lo farebbero influenzati da un “consenso non informato” a causa di una «censura mediatica ed ecclesiastica». Analogamente, anche l'adesione dei cardinali potrebbe, secondo Faré, non essere libera perché «condizionata dal ricatto o dal timore».

Vediamo ciascuna di queste affermazioni. Purtroppo è un grave fraintendimento della dottrina dell'APU ritenere che essa si applichi solo qualora vi sia una non meglio precisata «profonda comunione» con il Pontefice, o siano assenti voci discordanti e persistenti. In realtà, l'APU richiede semplicemente che nessuno dei cardinali elettori o almeno del collegio episcopale, abbia sollevato, in tempi congrui, dubbi sulla legittimità dell'elezione del Pontefice e si sia dunque rifiutato di aderire a Tizio come Pontefice. Che ci siano laici o preti a contestare questo fatto, oltretutto anni dopo la chiusura del conclave, non inficia assolutamente il principio dell'adhæsio, il quale non richiede una particolare qualità della «comunione e del consenso» nella Chiesa, condizione peraltro assai difficile da stimare, e neppure dipende dalla presenza o meno di un presunto timore dei cardinali, criterio non meno problematico da verificare. Che ci si debba riferire al dubbio dei cardinali e del corpo episcopale, che non aderiscono nella loro totalità al “Papa”, e non al dissenso “ritardatario” di un gruppo di semplici fedeli, lo conferma anche, come visto nell'articolo precedente, il caso di Urbano VI, che Faré, citando un testo di diritto canonico, riporta. L'elezione di Urbano VI, infatti, venne contestata da quasi tutti i cardinali elettori e dunque in quel caso non si può evidentemente parlare di una tale adhæsio.

Supponiamo ora che, per mettere lecitamente in dubbio l'elezione di un Papa, sarebbero sufficienti le generiche voci discordanti, ipotizzate dall'autore. Ne dovremmo concludere che nessun Papa, da Roncalli in poi, sarebbe certamente tale, dal momento che le voci discordanti dei sedeprivazionisti e dei vari rami sedevacantisti persistono e crescono nel tempo. Analogamente, dovremmo anche ipotizzare che nessuna elezione papale sarebbe al sicuro dalla possibilità di contestazioni di gruppi potenzialmente avversi ed in tal modo raramente vi sarebbe la certezza della legittimità di un Papa. Situazione che, certamente, lo stesso Faré non accetterebbe. Ed è dunque proprio per questa ragione che la Chiesa insegna la dottrina certa dell'APU come fatto dogmatico.

Dunque, delle due l'una: o questa dottrina viene sostanzialmente vanificata, dal momento che basterebbero «voci discordanti e persistenti» di laici o preti per mettere in dubbio la legittimità del Pontefice regnante, con le conseguenze di cui sopra e lasciando perennemente la Chiesa alla mercé di dispute tra canonisti, giornalisti, gruppi; oppure essa si riferisce al “dissenso” non di qualunque voce, ma della voce di coloro che sono direttamente coinvolti nell'elezione del Papa, ossia i cardinali, e di coloro che condividono con il Papa, come collegio, la suprema potestà nella Chiesa, ai quali certamente possono associarsi anche presbiteri e fedeli. Una loro eventuale contestazione è infatti semplice da constatare e mette al sicuro da indebite estensioni del “dissenso” che renderebbe dubbia la legittimità del Papa in questione.

Cade così anche l'argomento per cui i fedeli non avrebbero potuto sviluppare il dubbio sulla validità dell'elezione per presunte censure mediatiche (ma quali? Il web è strapieno di persone che non riconoscono Bergoglio come Papa!); né ha senso ricorrere ad un ipotetico timore dei cardinali, tutt'altro che dimostrabile e, tra l'altro, smentito da quei cardinali che La Bussola ha potuto contattare in questi anni su tale questione, e che hanno categoricamente smentito che vi siano elementi per sostenere l'invalidità dell'elezione di Papa Francesco. Come avremo modo di vedere in un prossimo articolo, questa posizione nasce dal fraintendimento e dal disconoscimento della dottrina relativa all'APU.

Vediamo ora l'obiezione di una presunta contraddittorietà di tale dottrina con il diritto canonico. Così afferma Faré: «come dimostrato dall'avv. Ferro canale [cf. Dissertazione in punta di Diritto Canonico sulla tesi di Socci e la replica di Boni, n.d.a.], questo principio – che, ricordo, non è norma giuridica – è in contrasto con il Diritto Canonico». Prima considerazione: le norme giuridiche previste per la validità del conclave sono appunto lo strumento che i cardinali hanno per vigilare sulla correttezza dell'elezione del Pontefice; il che significa che è proprio in base ad esse che essi possono contestare la legittimità di un'elezione. Inoltre, sono anche lo strumento per dirimere la questione nel momento in cui mancasse l'adhæsio; cosa non sempre facile, come dimostra il fatto che, nel corso della storia della Chiesa, si sono inseriti nell'elenco dei papi alcuni pontefici che, ad una più attenta analisi, sono stati poi espunti. Ma si trattava appunto di casi di elezione contestata da cardinali e vescovi, che dunque non riconoscevano Tizio come Papa e facevano venir meno l'adesione universale e pacifica.
La dottrina dell'APU non annulla questi strumenti giuridici, ma semplicemente afferma che, quando la Chiesa universale, rappresentata dai suoi pastori legittimi, aderisce all'eletto, riconoscendolo Papa, ciò significa che tutti i requisiti sono stati adempiuti, oppure, secondo per es. il teologo cardinale Louis Billot, che eventuali problemi sono di fatto sanati.

Ora, sorprende che si sposi la tesi che l'APU venga considerata come un ingombro pericoloso per il diritto canonico, al punto da ritenere di doverla sacrificare. È piuttosto evidente che, in questo modo, la “ragion canonica” si distacca completamente e si pone persino in rotta di collisione con la dogmatica. Perché la Nota dottrinale del 1998 della Congregazione per la Dottrina della Fede, a commento e chiarimento della Professio fidei del 1989, riguardo all'APU così si esprime: «Con riferimento alle verità connesse con la rivelazione per necessità storica, che sono da tenersi in modo definitivo, ma che non potranno essere dichiarate come divinamente rivelate, si possono indicare come esempi la legittimità dell’elezione del Sommo Pontefice o della celebrazione di un concilio ecumenico, le canonizzazioni dei santi (fatti dogmatici); la dichiarazione di Leone XIII nella Lettera Apostolica Apostolicæ Curæ sulla invalidità delle ordinazioni anglicane». Il fedele è dunque tenuto ad assentire in modo pieno ed irrevocabile a quelle verità connesse alla Rivelazione, che la Chiesa propone come tali. E tra queste troviamo proprio la questione della legittimità del Papa riconosciuto universalmente e pacificamente dalla Chiesa. Ritenere dunque che l'APU sia in contrasto con il diritto canonico equivale ad affermare che un insegnamento che la Chiesa propone a credere in modo definitivo sarebbe in realtà lesivo del diritto. La posizione di Faré esige pertanto che quanto la Chiesa domanda di accettare con consenso pieno e irrevocabile, sia invece da respingere, per non ledere il diritto; e dunque che quel consenso da dare in modo definitivo è in realtà revocabile. Si crea in questo modo un grave cortocircuito, potenzialmente estendibile anche ad altri insegnamenti che la Chiesa esige si credano in modo definitivo, come la proibizione di ordinare le donne, la condanna dell'eutanasia, la condanna della contraccezione, etc.

Dubitare che quel Papa che la Chiesa ha riconosciuto come tale – dal momento che nessun cardinale né alcun vescovo hanno impugnato la validità dell'elezione di Bergoglio – sia in realtà il Papa, significa ritenere che quanto la Chiesa propone ai fedeli come insegnamento definitivo è in realtà revocabile, facendo in questo modo saltare tutta la struttura dell'insegnamento magisteriale della Chiesa. Nel prossimo articolo vedremo più da vicino il contenuto, il senso e la cogènza dell'APU.

 



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