«Noi, liberati ma ancora oppressi da capi politici e religiosi»
«È sempre la comunità più debole a subire di più le conseguenze della guerra e in Iraq, la comunità più debole, è quella dei cristiani». Alla vigilia del viaggio del Papa parla alla Bussola il salesiano di rito caldeo Don Aisen Elia Barbar.
"Salvo variazioni". Due parole che rendono bene l'idea del clima d'incertezza in cui la pandemia ha trascinato le agende di tutti, compresa quella del Papa. Nell'ultimo bollettino della Sala Stampa della Santa Sede risalente al 18 febbraio, infatti, l'annuncio dell'imminente viaggio papale in Iraq è stato inframmezzato dall'inserimento di questa formula che ancora non toglie del tutto dal tavolo la possibilità di un annullamento. Il coprifuoco imposto per contenere l'aumento dei contagi e la ripresa dei razzi probabilmente filo-iraniani che non ha risparmiato la zona internazionale della capitale rendono ad alto rischio la prima visita all'estero dopo lo scoppio dell'emergenza sanitaria.
A metà novembre, come avviene regolarmente nei preparativi per i viaggi papali, funzionari della gendarmeria e dei servizi italiani si sono recati in loco per studiare il piano sicurezza insieme ad i colleghi iracheni. Nel frattempo, però, la fragile tregua che durava da giugno 2019 è stata interrotta lo scorso 21 gennaio dal duplice attentato che ha insanguinato il mercato della capitale di piazza Tayaran, provocando 32 morti. Anche alla luce di questa situazione interna tutt'altro che rosea, le comunità cristiane dell'Iraq sono molto grate al Santo Padre per la determinazione con cui sta dimostrando di voler portare comunque a compimento il viaggio annunciato.
Sono quasi commoventi le immagini che arrivano da Qaraqosh, quarta tappa del tour papale, con le suore ed i parrocchiani impegnati a pulire il pavimento della chiesa di Santa Maria al-Tahira, occupata e devastata dall'Isis nel 2014 e ricostruita a tempo di record dopo la liberazione arrivata due anni più tardi. In cima al nuovo campanile è stata eretta una statua di Maria che svetta su questo villaggio della Piana di Ninive dove la presenza dei cristiani è attestata sin dal VII secolo d.C. L'arrivo del Papa era inatteso dalle comunità tornate dopo la liberazione che si aspettavano di vederlo solo a Baghdad.
Francesco, invece, ha stupito tutti ed ha scelto di fare tappa anche a Qaraqosh, oltre che ad Erbil e Mosul.
Don Aisen Elia Barbar, primo salesiano di rito caldeo iracheno, ha spiegato alla Nuova Bussola Quotidiana che i cristiani locali sono pieni di gioia per l'imminente viaggio papale perché lo leggono come un segnale di speranza. E di speranza hanno davvero bisogno: il cristianesimo rischia di scomparire da queste terre in cui è presente da sempre ed i numeri che si leggono sulla presenza cristiana, già di per sé spaventosi, potrebbero essere persino al ribasso.
Don Aisen, nato e cresciuto a Baghdad, ci porta come esempio il destino dei suoi parenti: "La mia era una famiglia numerosa, adesso ho solo una sorella in Iraq e tutti gli altri sono emigrati. Per farsi un'idea dell'attuale situazione è sufficiente pensare che due anni fa, prima di venire in Italia, ero viceparroco in Libano ed avevo a che fare con 3000 famiglie irachene".
L'Isis è stato sconfitto, ma non sempre la liberazione ha favorito il ritorno dei profughi cristiani che si ritrovano ora le case dei villaggi d'origine occupate dalle milizie paramilitari del Pmf. Per questo, accanto alla gioia per l'arrivo di Francesco, l'altro stato d'animo che prevale nei cristiani d'Iraq è la diffidenza nei confronti delle parole di benvenuto che gli stanno rivolgendo in questi giorni i capi politici e religiosi sciiti.
Don Aisen ci racconta che in molti persiste la paura che la classe politica locale, accusata di non aver fatto nulla per impedire l'esodo dei cristiani e di non fare nulla per favorirne il ritorno, possa strumentalizzare la visita del Papa e la sua disponibilità al dialogo per presentare al mondo l'immagine di un Iraq sicuro ed accogliente per le minoranze religiose. Un Iraq che, purtroppo, non corrisponde alla realtà.
"Ammiro molto il Papa per la volontà ed il coraggio di visitare il mio Paese, va assolutamente ringraziato per questo", ci dice il salesiano confidando il suo dispiacere, invece, per l'atteggiamento dei capi religiosi e politici iracheni che incontrerà e che si stanno sperticando in saluti di benvenuto, pur avendo sempre dato prova di disinteresse per la sorte dei cristiani dell'Iraq.
"Credo che se potessero emigrare tranquillamente e senza rischi, tutte le famiglie cristiane rimaste abbandonerebbero la nostra terra e difatti, a cinque anni dalla sconfitta dell'Isis, sono molto poche quelle che hanno scelto di tornare". Don Aisen ha un ricordo nitido delle prime ondate migratorie a seguito dell'avanzata degli jihadisti nel Nord perché nel 2014 era stato inviato a Edril e si ritrovò ad accogliere i profughi dei villaggi cristiani attorno a Mosul: "Fu una doccia gelata per noi, non ci saremmo mai aspettati di vedere quei villaggi occupati perché non avevano una posizione strategica ed erano abitati da persone pacifiche", racconta il salesiano, arrivando alla conclusione che se l'Isis decise di occuparli fu esclusivamente per via della loro connotazione culturale e religiosa.
L'Iraq che dal 5 all'8 marzo accoglierà il Papa, dunque, ha il volto e l'anima ancora deformate dai conflitti. Francesco sarà il primo pontefice a mettere piede nel Paese mediorientale, realizzando un sogno precedentemente coltivato da San Giovanni Paolo II. Proprio la figura di Wojtyła resta ancora oggi una delle più ammirate tra i cristiani locali (e non solo) grazie alla sua netta presa di posizione contro l'intervento militare nel 2003, una delle ultime battaglie combattute in vita dal Papa Santo. "Lui - ricorda don Aisen - sapeva che la guerra non porta frutto e che avrebbe distrutto tutto. E' sempre la comunità più debole a subire di più le conseguenze della guerra e in Iraq, la comunità più debole, è quella dei cristiani".