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IL PREMIO PER LA PACE

Nobel ai giornalisti per la libertà di stampa. E ora: basta censura, anche in Occidente

“Un giornalismo libero, indipendente e basato sui fatti serve a proteggere dall'abuso di potere, dalle bugie e dalla propaganda di guerra”, il Nobel per la Pace quest'anno va a due giornalisti che lo meritano: Dmitrij Muratov, russo, fondatore e direttore del quotidiano Novaja Gazeta e Maria Ressa, filippina, fondatrice del blog di inchiesta Rappler. Entrambi subiscono una forte repressione in Paese ormai solo formalmente democratici. Ma il messaggio di questo Nobel sarà davvero universale? Perché anche in Occidente, con il pretesto della "lotta alle fake news" la censura sta diventando pratica quotidiana. Col beneplacito di quegli stessi giornalisti che plaudono al coraggio dei due Nobel. 

- PREMIATO GURNAH, CONTRO IL COLONIALISMO di Anna Bono

 

Attualità 09_10_2021
Dmitrj Muratov, Maria Ressa

“Un giornalismo libero, indipendente e basato sui fatti serve a proteggere dall'abuso di potere, dalle bugie e dalla propaganda di guerra”, è la motivazione data dalla presidente del Comitato per il Nobel, Berit Reiss-Andersen. “Senza la libertà di espressione e la libertà di stampa, sarà difficile promuovere con successo la fraternità tra le nazioni, il disarmo e un migliore ordine mondiale per avere successo nel nostro tempo”. E per questo, il premio Nobel per la Pace del 2021 è stato assegnato a due giornalisti, Dmitrij Muratov, russo, fondatore e direttore del quotidiano Novaja Gazeta e Maria Ressa, filippina, fondatrice del blog di inchiesta Rappler.

La Novaja Gazeta è stata fondata nel 1993 per volontà di Michail Gorbachev con i soldi del premio Nobel per la Pace vinto nel 1990. Promuove gli ideali riformisti, glasnost e perestrojka, dell’ex presidente ed è divenuto punto di riferimento delle inchieste contro la corruzione e i crimini di guerra nella nuova Russia indipendente. Muratov, che lo dirige dal 1995, ha visto morire ben sei dei suoi giornalisti e collaboratori. La vittima più celebre è Anna Politkovskaja, di cui proprio il 7 ottobre si commemorava il 15mo anniversario dell’assassinio. La giornalista di inchiesta, celebre per le sue indagini sui crimini di guerra russi nella Guerra in Cecenia e la corruzione del governo filo-russo locale, venne assassinata a colpi di pistola nell’ascensore di casa sua. Condannati cinque esecutori materiali nel 2014, non sono mai stati trovati i mandanti del delitto. Meno noti, ma altrettanto tragici, sono i casi di Igor Domnikov, ucciso anch’egli di fronte a casa sua (come la Politkovskaja) nel 2000, Juri Shchekochikhin, avvelenato con materiale radioattivo nel 2003, Anastasia Baburova e l’avvocato Stanislav Markelov uccisi a rivoltellate dopo una conferenza stampa sulla guerra in Cecenia, infine Natalia Estemirova, assassinata a Grozny (capitale della Cecenia) nel 2009. È a loro che Muratov ha dedicato il Nobel.

Oltre ai delitti, non meno gravi sono state le minacce subite dal suo giornale, negli ultimi anni. Nel 2017 sono state trovate tracce di una sostanza chimica tossica nell’abitazione e nell’auto della giornalista Julia Latinina. La stessa sostanza è stata spruzzata di fronte all’ingresso della sede del quotidiano, il 15 marzo scorso. Sempre alla stessa porta sono stati recapitati, negli ultimi tre anni, “doni” quali tre pecore in gabbia, una testa di pecora, addobbi funebri. Innumerevoli le minacce scritte e i casi di violenza verbale contro il giornale d’opposizione. Il Nobel al suo direttore è un premio al suo coraggio, per non aver mai cambiato linea.

Meno nota al grande pubblico è la situazione delle Filippine che, sotto il presidente Rodrigo Duterte, sono diventate il settimo Paese al mondo più pericoloso per i giornalisti. Maria Ressa ha fondato il blog Rappler nel 2012. Da quando Rodrigo Duterte ha vinto le elezioni con la promessa di sradicare la droga con un massiccio uso della forza, è diventata il punto di riferimento per chi vuole far luce sui metodi impiegati dalla polizia in questa guerra alla droga. Fra corruzione, esecuzioni extra giudiziali e arresti arbitrari, i morti si contano a migliaia. La Ressa ha pagato personalmente il suo impegno. È finita in carcere per ben due volte ed ha ricevuto dieci mandati d’arresto. Nonostante tutto, continua a rimanere nelle Filippine e a scrivere. L’anno prossimo è prevista l’uscita del suo libro, il cui titolo provvisorio è Come resistere a un dittatore. Rischia seriamente la vita: nel solo 2020, sono stati assassinati quattro giornalisti. Anche sul piano legale la situazione sta diventando sempre più ostica, anche per gli editori più potenti, considerando che l’anno scorso il Congresso (parlamento) filippino non ha rinnovato la concessione alla più grande rete televisiva del Paese, la Abs-Cbn. Dopo aver vinto il Nobel per la Pace, Maria Ressa ha commentato: “Non penso sia per me, penso sia per Rappler. Abbiamo sempre detto dal 2016 che stiamo combattendo per i fatti”.

Il Nobel ai due giornalisti resistenti, contro la censura e l’intimidazione di Stato, può avere un valore universale. Certo sarebbe stato più coraggioso ancora assegnarlo, in assenza a Zhang Zhan, giornalista indipendente cinese in carcere dal maggio del 2020 e condannata a quattro anni di prigione per i suoi servizi sulla Wuhan sotto il primo lockdown del mondo. Le Filippine e la Russia, benché siano diventate molto pericolose per i giornalisti, hanno ancora leggi che (almeno sulla carta) proteggono la libertà di stampa. In Cina no. Molti giornalisti non autorizzati, soprattutto nei mesi della pandemia, sono semplicemente scomparsi, senza alcun processo e nemmeno un arresto formale. Il Nobel ai giornalisti sarà recepito anche dal regime di Pechino (e dai suoi sostenitori in Occidente)?

Sarà poi interessante vedere come il messaggio di questo Nobel verrà recepito negli ambienti giornalistici occidentali dove, soprattutto negli ultimi due anni, censura e auto-censura stanno diventando la norma e non più l’eccezione. L’assegnazione del prestigioso premio è avvenuta proprio mentre Google, il colosso di Internet per eccellenza, annunciava il blocco delle pubblicità per tutti quei video di YouTube con un contenuto “che contraddice il consenso scientifico sul cambiamento climatico”. A parte il fatto che il “consenso scientifico” è un concetto contraddittorio in sé (la scienza non dipende dal parere del maggior numero di scienziati, non è democratica, come insistono gli scienziati stessi), questa è una forma larvata di censura: negare i profitti a chi promuove un contenuto sgradito. Per stanare questi dissidenti, Google afferma che saranno impiegati “metodi automatici e una revisione umana”. Leggasi: un algoritmo per scovare le parole-chiave proibite e squadre di admin per scoprire contenuti proibiti. Questi contenuti, secondo Google, sono quelli che “ritengono il cambiamento climatico come una truffa o una bufala, affermazioni che negano una tendenza di lungo periodo che porta ad un riscaldamento globale e negano che le emissioni di gas serra derivate da attività umane contribuiscano al cambiamento climatico”.

Sempre il giorno stesso dell’assegnazione del Nobel, Facebook, il più frequentato social network del mondo con quasi 40 milioni di utenti in Italia, ha censurato un video con l’intervento di Giorgio Agamben. Mentre questo articolo va online, il video non è ancora visibile sul social network. Il filosofo si opponeva all’introduzione dell’obbligo di Green Pass, considerandolo un provvedimento da Unione Sovietica e non da Paese libero. Da notare: il video era pubblico ed era la sua audizione in Commissione Affari Costituzionali, nel Senato della Repubblica italiana.

Scommettiamo però che il problema che abbiamo in Occidente non sarà rilevato, né dal Comitato per il Nobel, né dal mondo del giornalismo occidentale che oggi plaude (giustamente) al premio per i giornalisti eroi. E non lo sarà per due motivi. Perché da noi non c’è un regime che uccide, incarcera o minaccia, ma un’auto-censura, indotta dallo Stato, sicuramente, ma praticata dagli stessi editori e proprietari di social media. E l’auto-censura è molto più difficile da combattere rispetto alla censura, perché è per definizione "accettata" socialmente. In secondo luogo, però, si è affermata la bizzarra idea che la vera libertà di stampa sia la libertà dalle fake news. E molte notizie sono considerate “fake” prima ancora che vengano diffuse. Quindi siamo al paradosso di considerare “libertà di stampa” la nuova censura.