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LETTERATURA

Nobel a Gurnah contro il colonialismo. Quello europeo, non quello arabo

Il premio Nobel per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Nelle motivazioni c'è la sua "intransigente e compassionevole analisi" degli effetti del colonialismo. Di quale colonialismo si parla? Di quello europeo. Eppure il colonialismo arabo a Zanzibar, in 13 secoli, deportò 12 milioni di schiavi. 

Cultura 09_10_2021
Mercato degli schiavi a Zanzibar

Il premio Nobel 2021 per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, residente dal 1967 in Gran Bretagna dove ha insegnato inglese e letterature post coloniali presso l’università del Kent fino alla pensione. Gurnah è autore di dieci romanzi e di diversi racconti e saggi. I suoi personaggi, spiega la fondazione Nobel “si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente” con il merito di “rifuggire dalle descrizioni stereotipate” e di “aprire il nostro sguardo su un’Africa orientale culturalmente diversificata, sconosciuta a molti in altre parti del mondo”.

La fondazione Nobel ha ragione. Le coste e le isole dell’Africa orientale sono state nei secoli uno straordinario luogo di incontro di etnie, culture e religioni. In quelle del Kenya e del Tanzania è nata e si è sviluppata la società swahili, urbana, una delle poche realtà africane proiettate verso l’esterno, con regolari rapporti commerciali lungo l’Oceano Indiano, fino in Cina, già a partire dall’VIII Secolo, con una lingua antica come quella italiana. Che sia un “melting pot”, un crogiuolo di culture ed etnie, come sostengono alcuni antropologi è opinabile. L’evidenza, lì come in altri contesti, è piuttosto di una supremazia della componente più forte: in questo caso, imposta dalla popolazione arabo-islamica – i Waswahili – e subita dalle tribù bantu originarie e da ogni altra componente via via aggiuntasi, almeno finché la regione non è stata colonizzata da Gran Bretagna e Germania alla fine del XIX Secolo.

Abdulrazak Gurnah è nato nel 1948 a Zanzibar, l’isola da cui per secoli gli arabi, la cui colonizzazione del continente africano è iniziata subito dopo la morte di Maometto nel 632, hanno controllato le coste africane e gestito il commercio sia con l’interno del continente sia con i Paesi asiatici. Gli schiavi erano una delle merci: uomini, donne e bambini comprati o catturati, più di dodici milioni di persone nell’arco di 13 secoli. La tratta degli schiavi è stata proibita sulla costa swahili dalla Gran Bretagna all’inizio del XX Secolo, ma il risentimento, il desiderio di rivalsa delle popolazioni bantù è rimasto vivo. Non si spiega diversamente la feroce rivolta delle popolazioni bantu di Zanzibar che nel 1964, istigate da due partiti di ispirazione comunista (Che Guevara all’epoca si stava illudendo di fare dell’Africa il centro da cui iniziare la rivoluzione comunista mondiale), hanno ucciso da 5mila a 12mila Waswahili su un totale di 22mila. Abdulrazak Gurnah e i suoi famigliari sono tra i sopravvissuti che hanno lasciato l’isola non appena hanno potuto, finendo per ottenere asilo in Gran Bretagna.

Il protagonista di Paradise, il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico anglofono nel 1994, è un ragazzino venduto dal padre per pagare un debito. Descrive  una situazione comune un tempo. Di solito erano le famiglie bantu dell’entroterra swahili a vendere i figli, preferibilmente le femmine, in caso di necessità. Oppure, durante una carestia, scambiavano un figlio con del mais che ai Waswahili della costa non mancava mai. Forse è questo mondo che Gurnah racconta nei suoi libri, insieme alla sua personale esperienza di profugo. La fondazione del Nobel ha deciso di conferirgli il premio “per la sua intransigente e compassionevole analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.

Ma quando, riferendosi all’Africa, si dice “colonialismo”, senza specificare, si intende sempre unicamente il colonialismo europeo, non altri, di cui si dimentica o si rifiuta di ammettere l’esistenza. Forse quindi alla fondazione Nobel, di Gurnah, è piaciuto che nei suoi libri descriva i traumi culturali e sociali prodotti dall’impatto con la società occidentale, non quelli patiti a causa della colonizzazione arabo-islamica che pure tante sofferenze ha inflitto e continua a infliggere in Africa, dove l’intolleranza islamica, combinata con il tribalismo, fa vittime e danni anche quando non assume i caratteri estremi del jihad. 

Quanto ai rifugiati e al loro destino, l’ammirazione per l’analisi “intransigente e compassionevole” contenuta nei libri di Gurnah sarebbe condivisibile se non fosse che, come ormai fanno in tanti, lui confonde rifugiati ed emigranti illegali. “L’Europa dovrebbe accogliere gli emigranti con compassione invece che fermarli con il filo spinato – ha detto all’agenzia di stampa Reuters che lo ha intervistato il giorno in cui ha vinto il Nobel – e attualmente il governo britannico si comporta in modo davvero molto brutto con i richiedenti asilo e con chi chiede di entrare nel paese”. Non è che Gurnah non capisca la differenza. Come tutti i sostenitori dei “porti aperti”, delle frontiere aperte la conosce e semplicemente non la accetta. “Sembra così sorprendente al governo britannico – dice – che della gente che arriva da luoghi difficili voglia venire in un paese ricco? Perché si meraviglia tanto? Chi non vorrebbe venire in un paese più prospero? C’è della cattiveria nella sua risposta”.

E, seduto nel suo giardino di Canterbury, all’ombra di un acero – così lo descrive Reuters – parla in toni lirici dell’esperienza di emigrare, di lasciarsi alle spalle la famiglia e una parte della propria vita per vivere in una nuova società in cui si sentirà sempre in parte un estraneo.