No della Consulta al referendum per abrogare l'autonomia
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Sentenza accolta con favore dal centrodestra, diviso però su come attuare la riforma Calderoli. L'ammissione di altri cinque quesiti su cittadinanza e lavoro proposti da +Europa e Cgil è invece un'arma a doppio taglio per la sinistra, rischiando di spaccarla.
La Corte Costituzionale ha bocciato la richiesta di referendum abrogativo sulla legge Calderoli, che stabilisce i principi per l'attribuzione di ulteriori funzioni e di condizioni particolari di autonomia alle Regioni. Una riforma fortemente voluta dalla Lega, che ne ha fatto il suo principale cavallo di battaglia già in campagna elettorale nel 2022. La sentenza della Consulta, che ha visto la partecipazione di undici giudici (ne mancano 4, che le Camere non hanno ancora provveduto a nominare), ha giudicato il quesito inammissibile, argomentando che la formulazione non fosse sufficientemente chiara da permettere una scelta consapevole da parte degli elettori. Questo pronunciamento è stato accolto con soddisfazione dal governo, in particolare dalla Lega, che considera la decisione come una vittoria politica, essendo la legge Calderoli un obiettivo fondamentale per il Carroccio, ma anche dai governatori delle regioni del Nord, come Luca Zaia e Attilio Fontana, che hanno appoggiato il percorso verso una maggiore autonomia.
Il giudizio della Corte Costituzionale arriva dopo mesi di dibattiti accesi, anche all’interno della stessa maggioranza di governo. La legge Calderoli ha diviso le forze politiche, con il centrodestra a favore e le forze di centrosinistra, insieme a varie associazioni, a chiedere l'abrogazione. Nonostante ciò, la Corte ha già sottolineato la necessità di una revisione della legge per correggere alcuni aspetti, in particolare in relazione ai Livelli essenziali di prestazione (Lep) e alla gestione delle risorse fiscali. La premier Giorgia Meloni ha dichiarato che il governo sta lavorando su una legge che faccia evolvere la riforma dell'autonomia differenziata, sebbene i dubbi all'interno della maggioranza – specie per quanto riguarda la definizione dei Lep – potrebbero ritardare il processo.
D'altro canto, la decisione della Consulta ha anche suscitato un'ulteriore reazione nel campo delle opposizioni. I partiti di centrosinistra, che avevano sostenuto il referendum, hanno mostrato delusione e hanno ribadito la loro ferma contrarietà alla legge Calderoli. La Cgil, promotrice di cinque referendum abrogativi in tema di lavoro, ha espresso la sua delusione per la bocciatura del quesito sull'autonomia, confermando però l’intenzione di proseguire la battaglia contro la legge. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha sottolineato che la sua organizzazione continuerà a lottare per l'abrogazione della legge Calderoli, impegnandosi anche a promuovere iniziative per sensibilizzare l'opinione pubblica.
Gli stessi giudici della Corte Costituzionale hanno invece dichiarato ammissibili gli altri cinque referendum abrogativi che riguardano il quesito proposto da +Europa sulla cittadinanza per gli extracomunitari e quelli promossi dalla Cgil su Jobs Act, indennità di licenziamento nelle piccole imprese, contratti di lavoro a termine e responsabilità solidale del committente negli appalti.
Ora per i quattro quesiti referendari sui temi del lavoro, promossi dalla Cgil, e quello sulla cittadinanza «si aprirà una grande stagione di partecipazione che metterà al centro le persone e le loro libertà sul lavoro e nella vita». Così il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, dopo la decisione della Consulta, spiegando che «inviteremo a votare cinque sì».
La Consulta con questi verdetti (no al referendum sull’autonomia, si a tutti gli altri referendum) sta incidendo profondamente sulle dinamiche politiche nazionali: dichiarando inammissibile il quesito sull’autonomia ha apparentemente fatto un favore al centrodestra, che in realtà è spaccato su come attuare la riforma Calderoli; dichiarando ammissibili i quesiti su lavoro e migranti, teoricamente ha fatto un favore al centrosinistra, ma in verità rischia di spaccarlo profondamente perché, in particolare sul Jobs Act, introdotto da Matteo Renzi quando guidava il Pd e il governo del Paese, Schlein e i centristi (dentro e fuori il Pd) hanno opinioni inconciliabili. Le correnti più moderate del Pd vedono nel Jobs Act uno strumento per accrescere la competitività delle imprese e quindi ben difficilmente voteranno sì a quel quesito. Il rischio per il centrosinistra è di appiattirsi sempre di più sulle correnti estreme di sinistra, perdendo definitivamente la battaglia per la conquista dei voti moderati.
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