Camillo de Lellis e i malati: da curare nel corpo e nell’anima
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Ricorre oggi la memoria liturgica di san Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli Infermi. Non fu un uomo di grande cultura, ma ha lasciato diversi scritti in cui è fissato il carisma camilliano: prendersi cura del malato non solo nel corpo ma anche nell’anima.

San Camillo de Lellis (1550-1614) era soprattutto un uomo del fare. Un fare che diveniva, in ogni istante, opera di Dio. Instancabile infermiere dell’anima e del corpo, sempre accanto ai sofferenti. Ma, bisogna aggiungere, non era certo un grande erudito: anche se di nobile casato, infatti, il bambino Camillo imparò con non poche difficoltà a leggere e a scrivere. Fin dall’infanzia, in fondo, si comprende bene il carattere di una persona: e lui, Camillo, con i libri non aveva proprio un bel rapporto. San Filippo Neri, suo padre spirituale, si sorprese non poco di come avesse potuto costituire una compagnia di religiosi: quello che sarebbe poi divenuto l’Ordo clericorum regularium Ministrantium Infirmis, l’Ordine dei chierici regolari Ministri degli Infermi. Eppure quell’uomo, alto, slanciato, un po’ guascone, che era Camillo, riuscì appunto nel suo intento.
San Camillo, dunque, non brillava per cultura. Ma questo non gli impedì di lasciare alcuni scritti che, sia per interesse storiografico sia per intensità spirituale, non hanno nulla da invidiare ad altri scritti di santi che con le “lettere” hanno avuto un rapporto più intenso, più intellettuale. Il corpus degli Scritti camilliani è vario: fra i documenti, spiccano le sue Lettere, missive che avevano come destinatari i suoi confratelli o altre persone che gravitavano attorno alla compagnia di religiosi da lui costituita. A queste lettere bisogna aggiungere i Libri mastri del suo servizio all’ospedale di San Giacomo a Roma: uno scrigno storico per comprendere come si conducesse la vita quotidiana nell’ospedale che fu il luogo-principe, fin dall’inizio, della missione dei camilliani. Con dovizia di particolari, i Libri mastri raccolgono le entrate e le uscite: si alternano in queste pagine formule come «recepi» (ricevuto), «Ita est» (per le uscite), «ho riciputo» (un italiano antico, “figlio” del latino) per indicare «ho ricevuto».
E, poi ancora, le Regole per la Compagnia dei Servi degli Infermi. Uno scritto prezioso che può essere considerato il documento con il quale san Camillo ha dato avvio al suo Ordine in maniera ufficiale: una “costituzione” approvata all’unanimità dal secondo capitolo generale (1599), fogli che presentano il nucleo centrale del carisma camilliano. Furono redatti da san Camillo nel memoriale presentato a papa Gregorio XIV per l’approvazione dell’Ordine stesso. Vanno poi citati i seguenti documenti che, in una certa misura, sono complementari alle Regole: Del proposito e giuramento che si faceva quando si pigliava la Croce; la Formula di vita dei Chierici; la prima Formula dei voti e Ordini et modi che si hanno da tenere nelli hospitali in servire li poveri infermi. E poi, il Testamento, scritto a più riprese: 14, 20, 24 e 29 giugno e 10 luglio 1614.
E proprio da quest’ultimo testo iniziamo questo viaggio “a volo d’angelo” alla scoperta delle parole del santo: «Ho detto che questa fondazione è un evidente miracolo di Dio: in particolare che si sia servito di me, gran peccatore, ignorante, pieno di tanti difetti e mancanze, degno di mille inferni. Ma Dio è il padrone, può far quello che gli piace ed è fatto infinitamente bene». Proprio per quanto scritto in merito alla sua scarsa preparazione (letteraria e non solo), queste parole sono una ulteriore conferma di quanto accennato all’inizio.
In un altro passaggio, san Camillo scrive: «Esorto tutti, presenti e futuri, a camminare per la strada dello spirito, cioè della vera mortificazione religiosa, se vogliamo essere quasi sicuri della nostra eterna salvezza; infatti il nostro Ordine richiede uomini perfetti, che facciamo la volontà di Dio e che giungano alla perfezione e santità». Camillo vuole uomini perfetti, cioè che compiano la volontà di Dio: solo questa è la strada per giungere alla santità. Nel Testamento, indica come «fine principale» dei religiosi camilliani quello del «servizio ai poveri infermi nell’ospedale». È proprio questo il cuore del carisma camilliano, il fondamento delle Regole: ventisei “piccole” regole, ventisei sintetici paragrafi che descrivono la vita da condurre all’interno dell’Ordine. È un vero e proprio programma che presenta – anche in maniera pragmatica – il giusto modo di vivere la vocazione camilliana. «In casa il mercoledì e il venerdì non si mangi né carne né formaggio né uova. Negli ospedali, invece, o in altri luoghi ognuno mangerà ciò che gli sarà servito», così recita la diciottesima norma. Un esempio di come fosse presente in san Camillo de Lellis il senso pratico richiesto da una vita condotta al servizio degli ammalati.
Fra i testi “complementari” alla Regola è necessario ricordare quello degli Ordini et modi che si hanno da tenere nelli hospitali in servire li poveri infermi. In queste pagine è possibile ritrovare tutto ciò che dovevano compiere i camilliani nel curare gli ammalati, con esortazioni idiomatiche non solo di natura infermieristica, ma anche spirituale: «Ognuno quando aiuterà così nel magnare, come nel medicare procuri di ricordare à dett’infermi qualche cosa spirituale esortandoli alla patientia, et confessione», così è scritto al paragrafo XXXIII.
Infine, le Lettere. Sono tante e ognuna di esse conserva un frammento di vita di san Camillo e del suo Ordine. I due termini vanno sempre insieme poiché Camillo incarnò in ogni suo aspetto l’Ordine da lui fondato. Ad esempio, arrivato san Camillo a Milano il 14 giugno 1594 per istituirvi una nuova comunità, in una lettera datata 27 giugno 1594, chiede alla direzione e amministrazione dell’Ospedale Maggiore di permettere ai suoi confratelli di vivere la loro missione nell’ospedale stesso: dunque, «di esercitare il loro Instituto che è servire li poveri Infermi dell’Ospedali nelle cose spirituali et corporali et anco in raccomandar l’Anime alli Morienti per la Città». Oppure, in una lettera che reca la data del 21 maggio 1604, redatta a Napoli, rivolge al superiore della comunità di Palermo (intanto l’Ordine cresceva), padre Ferrante Palma, l’invito a essere «fedele al Signore et bon pastore delle soi [sue] pecorelle». Un invito che non perde mai la sua attualità.