“No al suicidio assistito, chi soffre va aiutato a vivere”
Sia nel testo sul suicidio assistito che nel referendum proposto dai Radicali ci sono trucchi linguistici dove «la sostanza non corrisponde alle definizioni». Il t.u. Bazoli «amplia le già ampie maglie della sentenza della Consulta» e «ridimensiona sempre di più le cure palliative», venendo meno a quell’aiuto e vicinanza che una società deve offrire a ogni malato. La Bussola intervista il giudice Alfredo Mantovano, curatore del libro «Eutanasia. Le ragioni del no»
«C’è una gara a chi arriva prima a garantire la morte, se l’Associazione Luca Coscioni con il referendum o il Parlamento con il testo Bazoli. Ma la soluzione non va trovata sul terreno della morte, bensì in quello della vita». Il giudice Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Studi Livatino, sintetizza così la drammaticità dell’attuale contesto italiano, stretto tra le diverse spinte di quella che san Giovanni Paolo II chiamava «cultura della morte».
Lunedì 13 dicembre è iniziata alla Camera, in un’aula quasi deserta, la discussione sul testo unificato “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, di cui è relatore, per la Commissione Giustizia, il deputato del Pd Alfredo Bazoli. Il testo, in cui convergono più proposte di legge, prende le mosse dalla sentenza 242/2019 (preceduta da un’ordinanza l’anno prima) della Corte Costituzionale sul caso Cappato, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo parte dell’art. 580 del Codice penale sull’aiuto al suicidio, cioè «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 […], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili». Per la cronaca, vista l’agenda di lavori parlamentari, la discussione sul testo difficilmente riprenderà prima di febbraio 2022.
Intanto, per opporsi a questa deriva che spaccia l’uccidere come un atto di compassione, il Centro Studi Livatino ha pubblicato il libro Eutanasia, le ragioni del no (Cantagalli, 2021), che sarà presentato oggi alla sala stampa della Camera. Il volume, a cura di Mantovano, riunisce i contributi di 12 diversi autori, su temi che vanno dall’ambito giuridico a quello medico. In risposta alla sentenza 242, si ritrova anche il richiamo al Ddl dell’onorevole Alessandro Pagano che - oltre a passaggi migliorativi della normativa attuale - proponeva pure una modifica dell’articolo 580 Cp sulla quale la Bussola aveva espresso a suo tempo delle perplessità (vedi qui un’analisi di Tommaso Scandroglio e qui quella di Stefano Fontana).
Ad ogni modo, il libro tratta tanti dei nodi giuridici ed etici in gioco sul quesito referendario proposto dai Radicali e sul testo approdato nell’aula di Montecitorio. E sottolinea tra l’altro la necessità di una legge organica per sostenere i cosiddetti “caregiver informali”, cioè quei (soprattutto) familiari che assistono una persona bisognosa di cure. La Bussola ha intervistato Mantovano.
In aula alla Camera si è iniziato a discutere di suicidio assistito, eppure il testo unificato non usa mai il termine “suicidio”, ma parla di “morte volontaria medicalmente assistita”. Perché secondo lei?
In tutta questa vicenda, dal quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni al testo unificato (t.u.) di cui è relatore l’on. Bazoli, la sostanza non corrisponde alle definizioni. Nel referendum si parla di eutanasia legale, ma in realtà il quesito riguarda l’abrogazione, seppur parziale, della norma che punisce l’omicidio del consenziente, cioè l’art. 579 del Codice penale. La formulazione del t.u. richiama alla mente l’espressione «procreazione medicalmente assistita». Non viene mai usato né il termine eutanasia né suicidio, ma è evidente che si mira a introdurre il suicidio assistito nel nostro ordinamento, peraltro ampliando le già ampie maglie della sentenza della Corte Costituzionale.
In quali punti il testo unificato va oltre la Corte Costituzionale?
Innanzitutto, il t.u. usa espressioni molto più vaghe, che non descrivono una condizione per così dire terminale: oltre alla situazione di “patologia irreversibile” prevista dalla Consulta, il testo Bazoli parla anche di “condizione clinica irreversibile” e di “prognosi infausta”, ma qualsiasi patologia tumorale, per esempio, ha una prognosi infausta. C’è poi un secondo punto importante: per la Corte Costituzionale, prima di ogni richiesta di fine vita, deve essere praticata una terapia del dolore; per il t.u., invece, non è necessario che il paziente riceva prima le cure palliative ma è sufficiente che le rifiuti espressamente per chiedere l’aiuto a morire. Il terzo aspetto riguarda l’obiezione di coscienza.
Che alla fine è stata riconosciuta attraverso un emendamento, giusto?
Sì. L’obiezione di coscienza era stata prevista dalla sentenza della Consulta, ma solo dopo è stata introdotta nel t.u. quale “concessione” ai critici del testo, per superarne le resistenze, con una costruzione che ricalca quella dell’obiezione di coscienza per l’aborto.
Prima accennava alle cure palliative. L’esperienza mostra che dove si diffondono il suicidio assistito e l’eutanasia, come in Canada, si creano confusione e disagi nel rapporto medico-paziente e vengono sottratte risorse alle cure palliative, che hanno realmente il fine di alleviare le sofferenze. Non è un cortocircuito che svela l’inganno della cosiddetta “dolce morte”?
Certamente. Io non condivido la sentenza della Corte Costituzionale di due anni fa, ma ha una sua logica quando argomenta che se ciò che ti fa chiedere di porre fine alla tua esistenza è un dolore insopportabile, allora è necessario fornire e passare prima dalla pratica di cure palliative cioè di un’adeguata terapia che può fortemente limitare il dolore stesso. Invece, nel t.u. si delinea un quadro normativo in cui la logica è quella di giungere senza riserve alla morte del paziente. E le cure palliative vengono ridimensionate sempre di più. Quel grandissimo oncologo che è stato il francese Lucien Israël era, da non credente, contrario all’eutanasia; e diceva tra l’altro che il fatto che l’anestesia venga praticata per gli interventi più difficili e dolorosi è la prova dell’efficacia della terapia del dolore. E prima ancora c’è il problema di fondo, culturale.
Quale?
Quello che mi sconcerta è per quale motivo, di fronte a persone che soffrono e che hanno gravi disabilità - penso tra gli altri a “Mario”, tetraplegico marchigiano - o anche un’età avanzata per cui sono dipendenti per tutto, non si moltiplichino gli sforzi per stare al loro fianco, con un’adeguata presenza fisica durante la giornata e un’assistenza anche psicologica. Invece si individua come soluzione la morte. Se uno ha una grave disabilità, non ha nessuno al suo fianco e crede di “pesare” sul prossimo, rischia di disperarsi: però una persona non dovrebbe essere condotta a una situazione simile. Una società che si muova su basi di vicinanza, di solidarietà, così come la Costituzione stessa impone, non dovrebbe spingere a formulare questa richiesta, di morte.
Andiamo ai “comitati etici”. Il Centro Studi Livatino ne aveva previsto l’istituzione già prima della legge sulle Dat, ma quali conseguenze è possibile prevedere dal loro radicamento?
Intanto bisogna chiarire che l’ultima formulazione del t.u. di Bazoli non parla di comitati etici, ma di “comitati per la valutazione clinica”, che è una cosa volutamente diversa. Il ruolo del comitato etico è per esempio quello di esprimere un parere su una cura sperimentale, sul rapporto benefici-rischi derivanti dall’assunzione di un dato farmaco, non pienamente conosciuto nell’uso, per pazienti gravi, ecc. Qui ci troviamo di fronte a una funzione diversa, che è quella di dire “sì” o “no” rispetto alla proposta di interrompere la vita di una persona. È una cosa completamente diversa, anche per questo ne hanno cambiato il nome… Per la loro istituzione e disciplina, poi, il t.u. rimanda a un futuro regolamento del Ministro della Salute. La sostanza, comunque, è che lo Stato, attraverso di essi, deciderà se una persona merita di continuare a vivere o di essere uccisa. Siamo oltre i confini dello Stato etico.
Lo abbiamo visto, del resto, in casi famosi di eutanasia di Stato all’estero…
Esatto. Ma questo t.u. fa anche di più.
Cioè?
In un altro passaggio inserito nella stesura ultima del testo Bazoli, si prevede che se il medico o il comitato per la valutazione clinica sono contrari alla richiesta di morte, il paziente può fare ricorso all’autorità giudiziaria, che decide in autonomia. E questo è un altro tassello che non lascia tranquilli per la difesa della dignità di ogni vita.