Nigeria alla prova del voto, la scelta fra due musulmani
All'ultimo momento sono state rinviate di una settimana le elezioni presidenziali previste per oggi. In lizza ci sono il presidente uscente Muhammadu Buhari e il tycoon sfidante Atiku Abubakar. Per la prima volta nella ventennale storia di democrazia del Paese africano, entrambi i contendenti sono musulmani.
Aggiornamento, ore 9.30: A cinque ore dall’apertura dei seggi, la commissione elettorale ha annunciato il rinvio del voto. l’elezione del capo dello stato e del parlamento è rimandata al 23 febbraio, quella quella dei governatori e dei parlamenti dei 36 stati federali al 9 marzo
16 febbraio. 84 milioni di nigeriani sono chiamati alle urne per eleggere il presidente, il vice presidente e l’Assemblea nazionale. Per la prima volta, da quando nel 1999 il paese ha completato la transizione democratica dopo decenni di colpi di stato militari e dittature, i due candidati alla presidenza favoriti sono entrambi musulmani: Muhammadu Buhari, presidente in carica dal 2015, leader dell’Apc, All progressive congress, ex militare già presidente tra il 1983 e il 1985 grazie a un colpo di stato militare, originario del Katsina, uno dei 12 stati a maggioranza islamica che in violazione della costituzione hanno adottato la shari’a, la legge coranica, e Atiku Abubakar, un tycoon nato nello stato orientale di Adamawa, comproprietario di una impresa di servizi petroliferi, per due volte eletto vicepresidente, leader del Pdp, People’s democratic party.
Entrambi promettono una svolta, investimenti, crescita economica... “Ogni voto conta, il futuro della Nigeria è nelle vostre mani”: così Abubakar invita i connazionali al voto. Il suo slogan è: “facciamo funzionare di nuovo la Nigeria”, intendendo che il paese patisce le conseguenze dei cinque anni di governo del partito avversario, l’Apc, e ha bisogno di cambiare rotta.
Per Buhari è più difficile essere credibile. Nel 2015 aveva promesso lotta alla corruzione e la vittoria su Boko Haram, il gruppo jihadista attivo nel nord est del paese. Ma la lotta alla corruzione si è risolta nella denuncia dei misfatti commessi durante gli anni in cui il partito di governo è stato il Pdp e nell’arresto di molti uomini ad esso legati. Quanto a Boko Haram, pochi mesi dopo aver assunto la carica, Buhari aveva dichiarato che i jihadisti erano “tecnicamente” sconfitti. Invece, dopo aver perso in effetti il controllo di alcune città e di estesi territori, Boko Haram si è riorganizzato. Da alcuni mesi ha intensificato gli attacchi e gli attentati creando decine di migliaia di nuovi sfollati e rifugiati. A questa evidenza Buhari contrappone il fatto, peraltro indiscutibile, che nei 15 anni in cui sono stati al governo, gli uomini del Pdp non hanno fatto meglio.
Si temono brogli, violenze post elettorali. Da tutto il mondo arrivano appelli per un voto “free and fair”, libero e corretto. Un gruppo armato del Delta del Niger, nel sud dove si concentrano i giacimenti di petrolio, ha minacciato di fermarne l’estrazione se Buhari sarà rieletto. Il leader dei separatisti del Biafra, la regione del sud est abitata dall’etnia Igbo, hanno lanciato un appello a boicottare il voto. Notizie vere e false hanno creato confusione e inquietudine nell’elettorato. L’incendio nelle ultime settimane di alcune sedi della Commissione elettorale ha aumentato i dubbi sulla capacità della Commissione di gestire il voto. Si è persino diffusa la voce che Buhari sia in realtà morto, vittima della lunga malattia che lo ha tenuto per mesi lontano dal paese, e che sia stato sostituito da un sosia.
Il rischio maggiore, però, ciò che più si deve temere è che sia irrilevante chi vincerà, Buhari o Abubakar, che entrambi concorrano alla massima carica, e con loro centinaia di candidati al parlamento, non per realizzare un progetto politico virtuoso, ma per conservare, o conquistare, il controllo delle istituzioni politiche, necessario per disporre delle risorse del paese e servirsene disinvoltamente. È quanto è successo poche settimane fa nella Repubblica democratica del Congo, dove un candidato, Felix Tshisekedi, ha vinto grazie a un accordo sottobanco con il presidente uscente, Joseph Kabila. Ed è quanto è successo in Sudafrica e in Zimbabwe un anno fa: in entrambi i paesi quella che sembrava e si sperava fosse una rivolta contro due leader irresponsabili e corrotti si è rivelata nient’altro che uno scontro tra fazioni dei rispettivi partiti di governo, l’Anc in Sudafrica, lo Zanu-Pf in Zimbabwe.
La Nigeria ha potenzialità straordinarie e tuttavia è sotto minaccia costante di implosione. È il paese africano più popoloso: 196 milioni di abitanti. Un africano su sette è nigeriano. È il primo produttore di petrolio e la prima economia del continente. È anche il paese africano con più miliardari. Ma è anche uno dei paesi più devastati da malgoverno e corruzione che alimentano il tribalismo, di per sé un fattore critico che in Nigeria assume forme estreme, esasperate dall’appartenenza religiosa. Il nord è popolato da etnie Fulani e Hausa, tradizionalmente dedite alla pastorizia e di fede musulmana. Al sud vivono in prevalenza etnie di agricoltori Igbo e Yoruba di fede cristiana o animisti. Di recente i Fulani hanno fatto più vittime con i loro attacchi che i Boko Haram stessi. Ma la conflittualità tribale è elevata anche nelle regioni petrolifere del sud dove tribù e clan si contendono l’accesso ai benefici indotti dall’industria estrattiva e in generale nei contesti urbani dove le etnie si disputano con la forza il controllo delle attività e delle risorse economiche.
Prima le dittature militari, poi i governi democratici invece di provare ad attenuare le tensioni etniche e religiose ne hanno approfittato per assicurarsi consenso e voti. Il primo dato per capire che cosa pensano i nigeriani dei due leader che, come i loro predecessori, promettono un cambio di rotta, sviluppo, stabilità e pace sarà l’affluenza alle urne.