Nicaragua, il martirio del vescovo Álvarez nelle carceri di Ortega
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Per non aver voluto abbandonare il suo popolo e piegare il capo davanti al dittatore Ortega, da quattro mesi il vescovo di Matagalpa è detenuto in un carcere di massima sicurezza, sottoposto a un trattamento disumano. Nel silenzio internazionale.
- UNA PERSECUZIONE SISTEMATICA DEI CATTOLICI di Marinellys Tremamunno
Monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa, è un Pastore che non ha voluto abbandonare il suo gregge e lasciare la sua patria. Si è rifiutato di ottemperare all’ordine di esilio negli Stati Uniti impostogli dal regime totalitario di Daniel Ortega, preferendo scontare nel suo Paese l’assurda pena di ventisei anni e quattro mesi di carcere, inflittagli dal giudice Nadia Tardencilla Rodríguez, del secondo tribunale distrettuale di Managua, a seguito di un processo farsa che ha portato alla condanna per cospirazione, diffusione di notizie false, e una serie di tipici reati normalmente utilizzati dai regimi totalitari per eliminare gli oppositori. In realtà, l’unica colpa di mons. Álvarez è stata quella di aver semplicemente rivolto comprensibili critiche ad un regime distintosi per la politica di aggressione e intimidazione fisica scatenata contro la Chiesa cattolica.
Così, il vescovo dissidente si trova dal 9 febbraio 2023 nell’Istituto penitenziario nazionale Jorge Navarro, meglio conosciuto come “La Modelo”. È attualmente detenuto in isolamento in una delle celle di massima sicurezza della Galleria 300, composta da circa 150 veri e propri “loculi” distribuiti in tre moduli. Mons. Álvarez si trova nel modulo 3-1 un edificio ad un piano sotterraneo completamente isolato noto come “Infernetto”, a causa dell’assoluta mancanza di igiene e soprattutto del caldo torrido che ricorda, appunto, le fiamme degli inferi.
In quelle celle di massima sicurezza, inaugurate dal regime nel 2015, i detenuti si trovano esposti all’umidità, al freddo e ad un caldo che può raggiungere i 45° centigradi, costringendo i malcapitati reclusi, come mons. Álvarez, a restare tutto il giorno in mutande, dato che persino la leggera divisa azzurra d’ordinanza risulta intollerabile. In quel forno l’unica concessione fatta dai carcerieri è quella di poter bere una bottiglietta d’acqua al giorno. Chi è sopravvissuto a quella bolgia dantesca, racconta come indescrivibile la sensazione claustrofobica di ansa, angoscia, e disperato desiderio di scappare.
Le celle hanno una dimensione di due metri per due metri e mezzo e sono di cemento, materiale con cui è realizzato tutto, comprese le brande. In questo spazio angusto è stato possibile ricavare anche un minuscolo bagno costituito da un tubo di lavandino fatiscente, dal quale fuoriescono scarafaggi, blatte, e altri insetti, e da un wc di metallo senza scarico perennemente sporco in quanto i carcerieri non consentono l’utilizzo di un secchio o di un contenitore per l’acqua necessaria a drenare le feci. Anche la poca aria maleodorante che circola dentro la cella contribuisce alla definizione di “infernetto” data a quel padiglione del penitenziario. L’unica fonte d'aria e di luce è una piccola finestra nella porta alta circa 25 centimetri e larga 12 centimetri, sigillata da una rete metallica, e un’altra piccola apertura di e altri 15 centimetri di larghezza per 15 centimetri di altezza attraverso la quale passano il cibo ai detenuti. Il menù è fisso e sempre lo stesso: riso e fagioli tre volte al giorno, anche se spesso capita che venga servito una volta sola. E molto spesso nel riso si trova anche qualche verme. All’interno della cella non c’è energia elettrica e nessuna luce artificiale. Neppure una lampadina per la notte.
Nelle condizioni di caldo infernale in cui si trovano, i detenuti non possono neppure trovare refrigerio attraverso l’acqua del wc, poiché il servizio idrico è attivo solo per venti minuti due volte al giorno, alle cinque del mattino e a mezzogiorno. Il regime, comunque, non si accontenta di lasciare esseri umani in una simile deplorevole situazione. Pretende pure di monitorare i detenuti 24 ore su 24 attraverso un sistema di telecamere installate in ogni cella.
Un simile stato detentivo in assoluto isolamento metterebbe a dura prova il sistema psicologico di qualunque essere umano. Monsignor Rolando Álvarez da ormai quattro mesi passa tutte le giornate in assoluta solitudine, se si eccettua la compagnia degli scarafaggi e della telecamera puntata su di lui notte e giorno. In quelle condizioni è possibile sopravvivere e non impazzire solo con la forza della fede e della preghiera. Il Vescovo di Matagalpa è un martire dei nostri giorni. E un grande esempio anche per molti dei suoi confratelli, che, al posto suo, non avrebbero esitato un attimo a prendere l’aereo per Miami e scappare verso il comodo esilio negli Stati Uniti.
Anche la Chiesa cattolica italiana, oltre ad organizzare discutibili veglie di preghiera contro la cosiddetta “omofobia”, farebbe bene a ricordarsi dei tanti pastori martiri sparsi in giro per il mondo. Molti fedeli capirebbero certamente di più una veglia di preghiera per il povero monsignor Rolando Àlvarez, vittima innocente di uno dei regimi totalitari più spietati oggi esistenti sulla faccia della Terra.
E anche tanti democratici e liberali dovrebbero forse essere meno distratti rispetto alla denuncia di regimi comunisti che, nel 2023, obbligano gli oppositori a vivere in condizioni che ricordano le scene del celebre film Papillon di Franklin Schaffner ambientato nel penitenziario dell’isola del Diavolo, la peggiore colonia carceraria nella Guyana francese.