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Netflix e il baby trans, la propaganda passa per le serie TV

Si chiama The Baby-Sitters Club ed è una nuova serie di Netflix che riguarda le vicende di cinque adolescenti alle prese con il baby-sitting. Uno dei bambini accuditi “si sente” una bambina. Nella serie si usano gli argomenti del transgenderismo per normalizzare quel che normale non è. Un salto di qualità nella manipolazione mediatica, che fa male innanzitutto ai minori.

Cultura 17_07_2020

Le relazioni omosessuali, politicamente, sono ormai acqua passata. Non fanno quasi più notizia e lo stesso mondo arcobaleno è impegnato altrove. La lobby Lgbt coltiva infatti oggi altre priorità, prima tra tutte la promozione del paradigma transgender. Lo provano le reazioni, schiumanti di rabbia, alle recenti prese di posizione della scrittrice J. K. Rowling e la recente propaganda mediatica su questo versante, centrata appunto sulla normalizzazione della condizione di chi, pur avendo un’identità sessuale biologicamente definita, «se ne sente» un’altra.

Un fresco esempio di questa nuova propaganda arriva da Netflix e, precisamente, da The Baby-Sitters Club, nuova serie disponibile per il pubblico statunitense dal mese di luglio e riguardante le vicende di cinque adolescenti alle prese con il baby-sitting. Ebbene, nel quarto episodio di questa serie accade che a Mary Anne, una di queste giovani, venga chiesto di occuparsi di Bailey, bambino che ha le sembianze di una fanciulla pur essendo in realtà biologicamente maschio. Della reale identità del bambino, però, la babysitter non si accorge subito. Ne viene al corrente quando, intenta a cambiare Bailey, Mary Anne apre il suo armadio trovandovi solo abiti maschili. «Questi sono i miei vecchi vestiti», svela a quel punto l’apparente bambina, con un colpo di scena che inizialmente spiazza Mary Anne. Tuttavia, la giovane si riprende in fretta; e lo fa a seguito di un confronto con la sua nuova amica, Dawn, il cui padre è gay.

Degni di nota sono gli argomenti, si fa per dire, con cui Dawn convince l’amica babysitter dell’innocuità dell’essere transgender: «Sei destrimane o mancina?», chiede. «La prima», replica Mary Anne. «E se qualcuno provasse a farti fare tutto con la mano sinistra, ti sembrerebbe davvero strano, non è vero? Beh, è così che si sente Bailey. Così come tu sai di essere destrimane, lui sa di essere una ragazza. Tutti vogliamo che il nostro lato esterno corrisponda a quello interiore», incalza Dawn, con un tentativo di indottrinamento che colpisce nel segno. Sì, perché quando, nel corso del medesimo episodio, Bailey si sentirà poco bene e dovrà essere curato in ospedale, sarà la sua babysitter a correggere il personale medico che presume si tratti di un ragazzo: «Bailey non è un maschio, e trattandolo come tale si ignora chi è lei davvero».

Ricapitolando, abbiamo la storia di un bambino transgender che viene apprezzato dalla sua babysitter in seguito a un dialogo folgorante con una coetanea che ha il padre gay. Dulcis in fundo, per conferire al tutto un tocco di realismo, Bailey è stato fatto interpretare dall’attore Kai Shappley, un bambino di 9 anni che davvero si identifica come una ragazza. Se non è un gay pride, insomma, poco ci manca.

Battute a parte, c’è poco da scherzare; anche se l’orientamento progressista di Netflix non è un mistero per nessuno, dato che, nel corso degli anni, questo colosso non solo ha proposto prodotti televisivi con personaggi particolari, caratterizzati da storie, tendenze e relazioni «oltre gli stereotipi» - da Orange is the new black a Sense8, da Black Mirror a Jessica Jones -, ma si è pubblicamente esposto, per esempio in occasione del Milano Pride del 2018, del quale è stato sponsor ufficiale contribuendo ad allestire con i colori arcobaleno sia la stazione della metropolitana, sia i bastioni di Porta Venezia.

Ciò nonostante, alla propaganda trans palesemente indirizzata ai minori, ecco, a questo non si era ancora arrivati. Non in una serie e non, almeno, in modo così esplicito. The Baby-Sitters Club rappresenta dunque un triste salto di qualità nella manipolazione mediatica, laddove per manipolazione si intende una presentazione dei fatti terribilmente di parte rispetto a come essi realmente sono.

Non occorre difatti essere psichiatri per comprendere come sia del tutto improprio liquidare un tema delicatissimo come la questione della “disforia di genere” alla stregua di una variante del mancinismo o dell’essere destrimani. Tanto più che la letteratura scientifica è molto chiara nell’evidenziare come il 90% dei giovani con delle difficoltà nel riconoscersi nella propria identità biologica poi finisce per superarle in modo naturale, senza interventi di riassegnazione né sperimentando qualsivoglia «cambio di sesso».

Tutto questo però la nuova serie Netflix si guarda bene dal sottolinearlo. Essa si limita a presentare la situazione critica di un bambino che si veste da bambina e che quindi, come tale, deve essere tassativamente considerato e trattato. Quel che ne esce è quindi un messaggio fuorviante ma oggettivamente semplice e chiaro. È la propaganda, bellezza.