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SUMMIT IN BRASILE

Nessun accordo per preservare l'Amazzonia, anche dopo Bolsonaro

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Fumata nera del vertice Acto, con i Paesi che ospitano l'immensa foresta amazzonica. Fortemente voluto da Lula, tenutosi in Brasile, a Belem, il summit non ha raggiunto l'obiettivo di fissare al 2030 lo stop alla deforestazione. Il dilemma "sviluppo o natura" non è sciolto. 

Creato 10_08_2023
Vertice di Belem, foto di gruppo

A furia di semplificazioni mediatiche, ci eravamo convinti che l’unico problema della foresta dell’Amazzonia, il polmone verde del mondo, fosse il presidente brasiliano conservatore Jair Bolsonaro. Da un anno gli è succeduto il progressista Lula. Fin da quando è in carica ha drasticamente ridotto la deforestazione (del 66% in un anno), inasprendo i controlli, soprattutto contro gli agricoltori locali. Lunedì 8 e martedì 9 agosto Lula ha promosso e ospitato un vertice degli otto Paesi amazzonici a Belem, nel Brasile settentrionale. Ma ha mancato l’obiettivo di ottenere una dichiarazione congiunta contro la deforestazione.

Era la prima volta che un summit dei Paesi amazzonici (organizzati nell’Acto: Brasile, Suriname, Guyana, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia) si riuniva da ben 14 anni, dunque da molto prima che Bolsonaro si presentasse sulla scena politica. E mettere tutti d’accordo su un programma comune si è rivelato un compito molto difficile, perché a contrapporsi sono l’idea dello sviluppo e quella della conservazione della natura.

Il presidente Lula ha riassunto in questi termini il suo sogno: “Un’Amazzonia con città più verdi, aria più pulita, fiumi senza mercurio e foreste sane. Un’Amazzonia con cibo in tavola, lavoro dignitoso e servizi pubblici disponibili per tutti. Un’Amazzonia con bambini più sani, migranti benvenuti, popoli indigeni rispettati e giovani più fiduciosi. Questo è il nostro sogno amazzonico”. Parrebbero le parole di una canzone di John Lennon, ma si sono scontrate, ancor prima che il summit iniziasse con la realtà dei progetti dello stesso governo brasiliano che intende sfruttare il petrolio nella foce del Rio delle Amazzoni. Questo progetto è stato contestato a Lula dal presidente della Colombia, Petro, che, più realista del re, ha scritto, in un editoriale del quotidiano statunitense Miami Herald: “Come capi di Stato, dobbiamo assicurare la fine delle nuove esplorazioni di petrolio e gas in Amazzonia. Dobbiamo dare prova di coraggio, anche se affrontiamo questioni sociali fondamentali all’interno dei nostri Paesi, esacerbate da una crisi del costo della vita e da un’inflazione dilagante”.

Questo è il dilemma, sviluppo o natura? Per Lula si deve risolvere con la costruzione di un nuovo modello economico, ma questo è realizzabile solo con l’aiuto del mondo più industrializzato, dunque Nord America ed Europa. Il Brasile si affida alle donazioni da parte di Paesi più ricchi e tecnologici per far funzionare le sue agenzie ambientali, che usano elicotteri, droni e altre attrezzature prodotte all’estero per monitorare la deforestazione illegale in tutta la vasta area. Durante il summit, il presidente brasiliano ha dichiarato che intende fare pressione sulle nazioni ricche affinché rispettino l’impegno preso durante l'accordo sul clima di Parigi del 2015 di fornire 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i Paesi in via di sviluppo a combattere il cambiamento climatico.

Quegli stessi Paesi donatori, sono però additati come i veri colpevoli. Luis Arce, presidente della Bolivia, ha affermato che l’Amazzonia è vittima del capitalismo. Martedì ha dichiarato al vertice che le nazioni industrializzate sono responsabili della maggior parte delle emissioni storiche di gas serra. “Il fatto che l'Amazzonia sia un territorio così importante non implica che tutte le responsabilità, le conseguenze e gli effetti della crisi climatica debbano ricadere su di noi, sulle nostre città e sulle nostre economie”. Neanche troppo fra le righe si legge questo messaggio: inutile chiederci di rinunciare a campi coltivati, allevamenti, miniere, gas e petrolio, combattendo contro la deforestazione, se lo scopo dell’Amazzonia è quello di assorbire le emissioni del mondo ricco.

Al summit era presente anche la Francia, visto che la Guyana è un suo territorio d’oltre mare. Macron non era fisicamente partecipe, ma ha mandato il suo messaggio, tramite l’ambasciatore in Brasile: “Molti impegni sono già stati presi: alla Cop (conferenza internazionale sul clima, ndr) di Glasgow nel 2021 ci siamo impegnati a fermare la deforestazione entro il 2030 e a Montreal nel 2022 a salvare il 30% della terra e del mare. Ora dobbiamo tradurre queste ambizioni in azioni concrete. Come possiamo farlo? Combattendo i flagelli della deforestazione, dell'inquinamento e dell'estrazione illegale dell'oro, e allo stesso tempo difendendo le persone che vivono nelle foreste”. Macron, ai tempi di Bolsonaro, proponeva addirittura di commissariare l’Amazzonia, sottraendola alla sovranità nazionale brasiliana.

Fermare del tutto la deforestazione entro il 2030 è l’obiettivo ufficiale di Lula per il Brasile e il summit mirava a convincere anche gli altri Paesi dell’Acto ad adottarlo. Tuttavia l’obiettivo è stato mancato, perché il conflitto fra sviluppo e natura non è facilmente sanabile, soprattutto nei Paesi più poveri. La dichiarazione finale di Belem lascia dunque ad ogni Stato piena libertà di fissare i propri obiettivi di conservazione della foresta.