Negare il matrimonio gay non è discriminazione
Negare le “nozze” gay non è discriminatorio. Lo dice la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) pronunciandosi sul caso Chapin e Charpentier vs Francia. Una coppia gay alla quale il procuratore aveva negato il riconoscimento della loro unione, si era rivolta alla Corte europea, dichiarandosi discriminata «in base al loro orientamento sessuale». Dopo fasi alterne, la Corte fa deciso di respingere il ricorso, affermando il principio che ogni Stato ha il diritto di applicare le sue leggi. Tutto bene, dunque? Per niente…
Negare di poter celebrare “nozze” gay non è discriminatorio. É ciò che in buona sostanza ha deciso ieri la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) pronunciandosi sul caso Chapin e Charpentier vs Francia. La vicenda è conosciuta dai media francesi come “il matrimonio Bègles”.
Nel 2004 due uomini si “sposano” nel comune di Bègles con tanto di registrazione da parte dell’ufficiale di stato civile. Il procuratore di Bordeaux si oppone: teniamo infatti conto che la legge francese sui “matrimoni” gay entrerà in vigore solo nel 2013. Nonostante l’opposizione del procuratore, il sindaco fa spallucce e non procede alla dichiarazione di nullità. Il procuratore allora pensa lui ad annullare il “matrimonio”, dichiarando che la differenza sessuale è elemento imprescindibile per la celebrazione di un matrimonio. Fino a quando il Parlamento non deciderà diversamente – aggiunge il procuratore nelle sue motivazioni - i giudici possono solo applicare la legge vigente.
I due aspiranti sposi non si arrendono e, dichiarandosi «discriminati in base al loro orientamento sessuale», ricorrono alla Corte d’Appello che rigetta nuovamente il ricorso. I giudici, tra l’altro, fanno osservare alla coppia che vi sono altre strade tutelate dall’ordinamento se vogliono mettere in piedi “una famiglia”, tra cui quella delle unioni di fatto e dei Pacs, cioè dei Patti civili di solidarietà, aperti anche alle coppie omosessuali. Inoltre, aggiungono – dopo questa precisazione di certo non condivisibile – che «la specificità [del matrimonio] - che non significa discriminazione - deriva dal fatto che la natura ha reso potenzialmente feconde le coppie di sesso opposto e il legislatore […] ha voluto tener conto di questo fatto biologico».
La coppia, però, ribatte che si sente ugualmente discriminata perché Pacs et similia valgono meno del matrimonio. I due a quel punto non si sono certo scoraggiati e hanno presentato un altro ricorso, questa volta presso la Corte Suprema francese, affermando che il divieto di “nozze” gay viola la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Anche la Corte Suprema nel 2007 rigetta il ricorso: «secondo il diritto francese, il matrimonio è l'unione di un uomo e una donna», tornano a ripetere i giudici i quali aggiungono che tale principio rispetta la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che tra l’altro – annota la Corte – non ha valore vincolante per l’ordinamento giuridico francese.
Infine, Chapin e Charpentier bussano alla porta della Cedu, ma anche questa, giusto ieri, ha dato loro torto. Nel contradditorio il governo francese, chiamato alla sbarra dai due ricorrenti, ha fatto notare che se le coppia ora vuole “sposarsi”, può farlo benissimo dato che da anni è in vigore la legge sul “Matrimonio per tutti”. Stesso concetto è stato ribadito dalla Cedu. Ma evidentemente i due volevano “soddisfazione”, cioè la loro era solo una battaglia ideologica. La Corte europea, da parte sua, all'unanimità ha deciso che l'articolo 12 (diritto al matrimonio) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in combinato disposto con l'articolo 14 (divieto di discriminazione) e l'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) non sono stati violati dai tribunali francesi, come invece sostenevano i due ricorrenti. I giudici sono arrivati a questa decisione anche sulla scorta di ampia giurisprudenza proveniente sempre dalla stessa Cedu, giurisprudenza che è stata richiamata in sentenza.
La Cedu, quindi, respinge il ricorso e lo fa con queste argomentazioni. In primis l’art. 12 prevede sì il diritto al matrimonio, ma – specifica la Corte – tale diritto si declina secondo quei vincoli giuridici determinati da ogni singolo Stato. In buona sostanza, la Corte ha affermato che sulla materia “matrimonio” ogni Stato è sovrano e non certo la Cedu. Se alcuni ordinamenti giuridici europei hanno aperto al “matrimonio” omosex – aggiungono i giudici – ciò non comporta che tutti gli altri Stati siano obbligati a seguire la stessa strada. In merito, invece, all’art. 8 (tutela della vita privata), la Corte osserva che il progetto di vita a due della coppia poteva essere benissimo realizzato tramite le Unioni di fatto o i Pacs. Insomma, lo Stato francese non è stato di ostacolo ai propositi di mettere in piedi un “nucleo familiare”, sostiene la Corte, e dunque non ha discriminato (art. 14).
Conclusioni (nostre). Ben venga che la Cedu abbia affermato che ogni Stato è sovrano nel disciplinare la materia “matrimonio” e che negare le “nozze” gay non è atto discriminatorio. Male invece suggerire l’adesione ad altre forme di convivenza omosex tutelate dagli ordinamenti e soprattutto male far intendere che la questione dei “matrimoni” tra persone dello stesso sesso è giuridicamente relativa, cioè che il “matrimonio” gay è cosa buona e giusta in uno Stato e in un altro no. Perché il “matrimonio” omosessuale o è sempre sbagliato o è sempre giusto. Tertium non datur.
Riferirsi agli ordinamenti giuridici interni per dirimere il caso della legittimità delle “nozze” omo, da una parte, sul piano pratico, tutela ancora quelle nazioni che resistono alle sirene omosessualiste e relative lobby, dall’altra però eleva a principio relativistico il rifiuto in radice dell’equiparazione tra matrimoni e relazioni omosessuali. Insomma, che ognuno faccia un po’ come gli pare, ma che nessuno si arroghi il diritto di dire che i “matrimoni” gay non dovrebbero essere legittimati in nessun Paese del mondo.