Namibia e i genocidi impuniti, solo la Germania chiede scusa
La Germania ammette il genocidio delle popolazioni Herero e Nama della Namibia nel periodo coloniale (1904) e risarcisce il Paese africano. Quante altre nazioni lo hanno fatto. E' più lunga la lista dei genocidi rimasti impuniti e tuttora negati dai discendenti di chi li ha commessi, in Turchia, Russia, Pakistan, per non parlare dei casi più recenti.
Nel 2016 la Germania aveva riconosciuto ufficialmente di aver commesso un genocidio. Non stiamo parlando della Seconda Guerra Mondiale: per i crimini commessi durante il grande conflitto, il governo tedesco ha pagato con il tribunale di Norimberga e ha ampiamente ammesso e accettato la colpa. Il genocidio tardivamente ammesso nel 2016 avvenne nel 1904, nella Germania imperiale di Guglielmo II, in una terra remota, ben lontana da Berlino e da occhi indiscreti: in Namibia, allora Africa Occidentale Tedesca. Solo ieri la Germania ha accettato di risarcire il Paese africano per il crimine subito. E ha previsto una visita di Stato del presidente della repubblica Frank-Walter Steinmeier.
Nel 1904, dopo vent’anni di dominazione tedesca, due etnie locali, gli Herero e i Nama, si erano ribellate al sequestro delle loro terre e del bestiame da parte dei coloni. Dopo che era scorso il primo sangue dei cittadini tedeschi, il governatore Lothar von Trotha ordinò lo sterminio fisico totale delle due popolazioni. L’80% di loro perì nel corso del genocidio.
Quello della Namibia fu il primo genocidio del Novecento, precedette addirittura quello degli armeni (1915-17) e fu condotto con tutti gli strumenti che poi entrarono a far parte del repertorio dei grandi sterminii del secolo scorso: il massacro indiscriminato di civili da parte di militari e paramilitari fu solo l’inizio, poi i sopravvissuti vennero fatti morire di fame e di stenti nel deserto, oppure deportati in campi di lavoro, intesi non solo come forme di detenzione e lavoro forzato, ma come metodo di sterminio. I tedeschi inaugurarono in Namibia anche un’altra pratica crudele: la sperimentazione scientifica su prigionieri. In pieno darwinismo si voleva dimostrare l’inferiorità biologica delle “razze” sottomesse dall’impero. I resti dei malcapitati usati come cavie umane sono stati restituiti alla Namibia, ai loro discendenti, solo dopo 114 anni, nel 2018. Solo ieri il governo Merkel, dopo anni di negoziati, ha accettato anche di pagare il risarcimento.
La Germania pagherà alla Namibia 1 miliardo e 100 milioni di euro, in 30 anni di rate, fondi destinati allo sviluppo di infrastrutture, sanità e formazione del personale, a vantaggio soprattutto dei discesi degli Herero e dei Nama colpiti dal genocidio. Il risarcimento non è comunque stato accettato di buon grado dagli attivisti Herero, come Laidlaw Peringanda che chiede una redistribuzione delle terre, sequestrate allora, attualmente nelle mani dell’1% di popolazione tedesca rimasta. E prevede (o minaccia) rivoluzioni future contro i “bianchi” se queste richieste non verranno accontentate. Toni forti che difficilmente si tradurranno in politiche concrete, considerando anche che i cittadini di origine germanica, a più di un secolo dalla fine della dominazione tedesca (cessata con la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale) non portano la colpa di von Trotha.
In un periodo di rivendicazioni e richieste di “decolonizzazione” anche dei programmi scolastici, almeno questo riconoscimento e risarcimento della Germania sono pertinenti. Hanno un loro senso logico e una morale chiara: un crimine del passato è stato finalmente riconosciuto e risarcito. Ed è un buon esempio per tutte le altre nazioni che, non solo non hanno mai chiesto scusa per i loro crimini, ma puniscono chi intende anche solo parlarne.
Il caso più celebre è quello della Turchia. Né il governo di Ankara, né alcuni dei suoi Stati alleati ammettono l’esistenza storica del genocidio di 1 milione e mezzo di armeni. Gli Usa lo hanno riconosciuto solo quest’anno, beccandosi la consueta protesta diplomatica del governo turco. La mera descrizione storica degli eventi del 1915, in Turchia, è ancora penalmente perseguibile per vilipendio alla nazione turca. Se è impossibile negare i morti, gli storici ufficiali confondono ancora oggi le acque, ammettendo “massacri” e “trasferimenti” di popolazione armena, motivandole con le necessità della Prima Guerra Mondiale. E riducono enormemente le statistiche ammettendo solo una piccola frazione dei morti.
Meno celebre, ma altrettanto eclatante, è il caso del Pakistan che non ha mai ammesso il genocidio nel Bangladesh del 1971 e perseguita chi ne parla. L’episodio fu uno dei più sanguinosi del secondo Novecento, nonostante risulti ignoto al pubblico occidentale: più di 1 milione di morti nei primi mesi dell’anno. Quando in Bangladesh, allora Pakistan Orientale, anche a seguito della cattiva gestione della grande alluvione del 1970, vinse le elezioni il partito indipendentista, il governo di Islamabad reagì con l’occupazione militare. L’occupazione si tradusse immediatamente in genocidio. L’esercito coprì l’azione di milizie islamiste che presero subito di mira intellettuali, minoranze religiose (soprattutto indù), veri e presunti indipendentisti e donne (da 200mila a 400mila furono vittime di una campagna di stupri sistematici). In pochi mesi, militari e paramilitari provocarono un numero ancora da accertare di vittime, da un minimo di 200mila a un massimo di 3 milioni, più probabilmente 1 milione secondo le statistiche del politologo Rudolph Rummel. Dal Paese fuggirono 8 milioni di persone, soprattutto indù e 30 milioni furono gli sfollati.
Esiste poi un grande capitolo della storia umana che deve essere ancora scoperto fino in fondo. Ed è quello dei genocidi nell’ex Unione Sovietica. Anche per merito del crollo dell’ex impero rosso, non esiste una memoria condivisa. La Russia, erede legittima di oneri e onori dell’Urss, non ammette l’esistenza del genocidio degli ucraini del 1932-33. Anche in questo caso, non nasconde del tutto i morti, ma non li ritiene vittime di un genocidio sistematico, bensì di una grande carestia causata dalla disfunzionale politica sovietica di collettivizzazione delle terre. Invece furono vittime di un genocidio voluto da Stalin: la popolazione rurale ucraina venne deliberatamente privata di ogni sostegno vitale e fu letteralmente imprigionata nel suo territorio. Un contadino ucraino non poteva conservare cibo (che veniva requisito sistematicamente) e non poteva neppure recarsi nella città più vicina per cercarne di nuovo. Le vittime, mai contate ufficialmente, vanno da 3 a 7 milioni, secondo le stime più accreditate, raccolte dalla storica Anne Applebaum, furono 4,5 milioni.
Vi sono poi i genocidi “minori” commessi da Stalin ai danni di minoranze “nemiche”. Toccò per primo ai polacchi, nazionalitàaccusata di cospirare contro l’integrità dell’Urss: fra il 1937 e il 1938 nei quasi 700mila cittadini sovietici giustiziati dopo i processi sommari del Grande Terrore, la maggioranza assoluta era costituita da polacchi residenti in Bielorussia e Ucraina. Una seconda e più grave persecuzione del polacchi avvenne fra il 1939 e il 1941, con l’occupazione delle regioni orientali della Polonia. Sempre nello stesso periodo venne condotta la prima grande deportazione dei baltici (lituani, lettoni ed estoni), anch’essi collettivamente colpiti per distruggerne l’identità nazionale. Una seconda deportazione sarebbe iniziata nel 1944, con la rioccupazione dei Paesi Baltici da parte dell’Armata Rossa, dopo la breve (e violenta) occupazione nazista. In quegli ultimi due anni di Seconda Guerra Mondiale, Stalin punì collettivamente con la deportazione anche le popolazioni dell’estremo Sud sovietico: i ceceni dal Caucaso e i tatari della Crimea, accusati di collaborazionismo. Scherzando, ma non troppo, Chrushev ammise che se gli ucraini non fossero stati così tanti, sarebbero stati deportati in massa anche loro. Nessuna di queste popolazioni venne annientata, nel senso fisico del termine. Ma di sicuro, lo sradicamento territoriale e la deportazione in remote aree della Russia artica e asiatica fu una forma di genocidio. Sono episodi gravissimi della storia del Novecento conosciuti e riconosciuti solo a livello locale, ma mai del tutto ammessi dagli eredi politici di Stalin.
Per non parlare, poi, dei genocidi più recenti, come il Sud Sudan, Timor Est, la Bosnia, il Ruanda, il Darfur. Storie di sangue, già note all’opinione pubblica, che hanno dato inizio (non sempre) a processi internazionali lentissimi e molto complessi. E non sono storie finite: la Cina nello Xinjiang sta commettendo un genocidio ai danni degli uiguri? La politica di deportazione sistematica nei campi di rieducazione e quella di sterilizzazione sistematica delle donne uigure, sta iniziando ad apparire, in tutta evidenza, come un genocidio. Pechino nega tutto, sta facendo del negazionismo in tempo reale.