Muro di Berlino, una lezione disattesa
La caduta del Muro di Berlino, 25 anni fa, è stata anzitutto la vittoria della dignità dell’uomo e della verità. Il Muro di Berlino non è crollato, è stato abbattuto, buttato giù da gente cocciuta e determinata. Fu la rivoluzione pacifica "più riuscita della storia". Ma la lezione è stata disattesa.
In occasione del 25esimo anniversario della caduta del Muro di Berlino pubblichiamo questa analisi di Luigi Geninazzi pubblicata sul numero di novembre de "Il Timone", www.iltimone.org.
La caduta del Muro di Berlino è stata anzitutto la vittoria della dignità dell’uomo e della verità. Una lezione poi disattesa e tradita ma che è urgente riscoprire ora che nuovi muri stanno sorgendo in Europa e nel resto del mondo.
È un evento che ha cambiato la storia ma si è già trasformato in un mito. La caduta del Muro di Berlino è ormai diventata un’icona gloriosa, l’immagine simbolica di un cambiamento epocale che ben pochi allora ritenevano possibile: la sconfitta del comunismo in Europa, la fine della divisione tra Est ed Ovest, l’inizio di un mondo nuovo. E tutto questo è accaduto nel giro di una notte, il 9 novembre 1989, quando l’odiosa barriera di cemento e di filo spinato che tagliava in due il Vecchio Continente sembrò afflosciarsi di colpo come fosse di cartapesta.
L’inizio di un sogno
Non era soltanto la fine di un incubo, era l’inizio di un sogno: la lunga e drammatica partita tra democrazia e totalitarismo era stata vinta dalla prima, e nell’ebbrezza del momento a molti parve che quella vittoria fosse data per sempre. L’idea della “fine della storia”, titolo di un famoso saggio del politologo americano Francis Fukuyama, sembrò costituire l’interpretazione più acuta e raffinata della grande svolta dell’89. Da quel momento in poi il sistema liberal-democratico non avrebbe avuto più rivali e si sarebbe affermato progressivamente e inevitabilmente in tutto il pianeta. Certamente ci sarebbero state ancora tensioni, crisi e guerre, ma non avrebbero più avuto un carattere ideologico e sistemico.
Non è andata così, lo sappiamo bene. Il mondo è percorso da spasmi e sfide “globali” che nel corso del 2014, a venticinque anni esatti dalla fine del comunismo in Europa, hanno assunto una fisionomia aggressiva e pericolosa per la tenuta della democrazia, a tal punto che Papa Francesco li ha qualificati come «una terza guerra mondiale condotta a pezzi». Il terrorismo che ha segnato l’alba del terzo millennio ha compiuto un micidiale salto di qualità passando da una struttura di gruppi clandestini (la rete di Al Qaeda) ad un’entità sovrana con un esercito, un territorio ed un governo violento e sanguinario (lo Stato islamico) che mira all’instaurazione del Califfato non solo nei Paesi di tradizione musulmana ma anche in Europa.
Abbattuto, non crollato
Nello stesso tempo l’Oriente russo torna a rivendicare con forza la sua identità culturale e politica riaffermando, anche militarmente, un concetto di “sfera d’influenza” che sembra riproporre la vecchia logica di Yalta. L’Occidente, confuso e smarrito, vive una crisi profonda che sta devastando l’economia ma, ancor peggio, sta sovvertendo i fondamenti etici della convivenza civile.
L’89, una fugace illusione? Nient’affatto. Dobbiamo lasciar perdere il mito e guardare a cosa effettivamente ha rappresentato il crollo del Muro. L’espressione è entrata ormai nel lessico abituale ma non corrisponde alla realtà. Il Muro di Berlino non è crollato, è stato abbattuto. Non in una notte ma nel corso di lunghi anni. Non è caduto, è stato buttato giù da gente cocciuta e determinata che ha sfidato un potere illiberale e repressivo a mani nude. La Germania comunista aveva già iniziato a cambiare un mese prima che a Berlino si aprisse il Muro: il 9 ottobre davanti alla Nikolaichirche di Lipsia, dove ogni settimana si riunivano a pregare i manifestanti, per la prima volta la polizia rinunciò ad intervenire con manganelli e idranti.
Tutto cominciò in Polonia
Come ammetterà più tardi un capo della Stasi (i servizi segreti della Ddr) «eravamo pronti a fronteggiare qualsiasi azione di protesta, ma non cori religiosi e candele accese». «Keine Gewalt», nessuna violenza era il loro motto. L’onda lunga della contestazione pacifica al Moloch comunista aveva preso il via in Polonia nel 1980. La prima breccia nel Muro venne aperta sul litorale baltico con la nascita di Solidarnosc, il primo sindacato libero di tutto l’impero sovietico. I lavoratori polacchi rialzarono la testa e ripresero coraggio, facendo propria l’esortazione divenuta ormai famosa di San Giovanni Paolo II, il Papa protettore di Solidarnosc: «Non abbiate paura!». Nacque un movimento di popolo la cui domanda di libertà avrebbe contagiato tutte le altre nazioni dell’Europa centro-orientale fino a provocare la resa delle dittature comuniste che, con un sorprendente effetto domino, caddero una dopo l’altra a Varsavia, Budapest, Berlino, Sofia, Praga e infine a Bucarest. Ad eccezione del caso rumeno, il cambiamento avvenne senza rompere neppure un vetro.
Quella del 1989 è stata giustamente definita «la rivoluzione pacifica più riuscita della storia». Milioni di persone hanno saputo affrontare il male con il cuore sgombro dall’odio, hanno saputo sfidare il potere senza cedere alla tentazione della violenza. Così è fiorita la primavera dei popoli dell’Est, radicati nella tradizione cristiana, risorsa essenziale per un movimento anti-totalitario come aveva già notato nell’Ottocento il laico Tocqueville secondo cui la religione, con la sua fede in un Assoluto ultra-terreno, limita e relativizza il potere terreno dei politici.
L’89 non è un mito, è un metodo per cambiare il corso della storia quando tutto sembra soffiare nel senso contrario. È il metodo messo in atto da Lech Walesa, il leader di Solidarnosc, inflessibile nel difendere i diritti degli operai ma al tempo stesso aperto al dialogo con il governo. È il metodo proposto da Vaclav Havel, l’uomo-simbolo della rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, il timido intellettuale che nel suo libro, Il potere dei senza potere, indica la via d’uscita dalla rassegnazione e dalla sottomissione alla menzogna del totalitarismo: un’esistenza autentica, una vita nella verità, perché il cambiamento delle strutture deve partire da un rinnovamento dell’io.
La logica di Yalta
È questa la lezione dell’89. Una lezione che purtroppo è stata disattesa e ignorata. A cominciare dal mondo islamico dove la religione viene spesso usata come una clava per colpire e distruggere chi è ritenuto nemico. La speranza in un cambiamento non violento che aveva caratterizzato le primavere arabe è stata spazzata via dall’inverno integralista che ha toccato il suo culmine nel fanatismo ideologico e sanguinario del Califfato. Le cose non vanno meglio in Europa dove il comunismo non esiste più ma resta la convinzione dei potenti di poter guidare la storia a dispetto della libertà e della dignità dei cittadini. La crisi ucraina, già costata migliaia di vittime, ha fatto rinascere prepotenze, ansie e paure tipiche della Guerra fredda con i soliti vecchi attori rivestiti di panni nuovi, la Russia autoritaria e nazionalista di Putin e l’Occidente indeciso a tutto. È di nuovo scontro tra i “blocchi” su cui si sprecano analisi partigiane, dimenticando di guardare al “fattore uomo”, a quell’innata aspirazione alla libertà che ha dato vita alla protesta di Majdan come avvenne trent’anni fa con Solidarnosc. Propaganda, menzogna, arroganza, odio e violenza, tutto sembra funzionare come ai vecchi tempi nelle stanze del Cremlino. Ma anche all’Ovest c’è la tendenza a disfarsi della soggettività umana in nome di nuove ideologie dove non c’è più il concetto discriminante di verità e di menzogna. Eppure il cambiamento può venire solo dal basso, dalla riscoperta della propria dignità, l’unica forza in grado di generare solidarietà e libertà. Solo così riusciremo a far cadere i nuovi Muri che stanno sorgendo in Europa e nel mondo.