Israele-Hamas, mediatori all'opera per un cessate il fuoco
Ascolta la versione audio dell'articolo
Netanyahu in visita negli Usa, la possibile tregua al centro dei colloqui con Trump. Intanto passa sotto silenzio lo scontro tra coloni armati e polizia e militari israeliani, segno di una guerra civile strisciante.

Mentre i mediatori stanno intensificando i contatti per ritrovare il bandolo della matassa che consentirebbe di trovare un altro eventuale accordo sul cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, prosegue indifferente gli attacchi su Gaza. L’aviazione continua a bombardare e ad ammazzare donne e bambini in modo indiscriminato. Israele non rinuncia al suo obiettivo, ormai non più segreto, di radere al suolo tutti gli edifici della Striscia. Nelle ultime ventiquattro ore sono giunte nelle strutture sanitarie, in ciò che è rimasto in piedi degli ospedali, settanta persone decedute e oltre 300 con gravi ferite.
I numeri fanno rabbrividire: 6.780 palestinesi sono stati uccisi e altri 23.916 sono rimasti feriti, da quando l’esercito di occupazione israeliano ha ripreso la sua guerra genocida contro gli abitanti di Gaza, e cioè dal 18 marzo scorso. Le ultime vittime hanno portato il bilancio complessivo, dal 7 ottobre 2023, a 57.338 unità; fanno parte di questo macabro computo anche i 743 uccisi mentre erano alla ricerca di aiuti nei punti di distribuzione o nelle loro vicinanze, organizzati, tra l’altro, dagli Stati Uniti. Secondo il ministero della Salute di Gaza il numero totale dei feriti è salito a 135.957, inclusi i 4.891 che erano alla ricerca di beni di prima necessità.
Ma la speranza, nonostante questo scenario di morte e distruzione, non è ancora venuta meno. Il gruppo di Hamas teme di dover rilasciare i prigionieri concordati, senza perseguire il suo obiettivo principale: porre fine alla guerra e l'abbandono del territorio da parte dei soldati israeliani. Gli oltre due milioni di abitanti della Striscia guardano, invece, a Doha, la capitale del Qatar, con la speranza che qualcosa possa accadere. Il clima sembra favorevole, ma potrebbe mutare all'improvviso. La speranza che qualche cosa di positivo possa accadere si sta diffondendo anche tra gli israeliani, nonostante le proteste di piazza, che premono su Netanyahu perché sottoscriva gli accordi e riporti a casa gli ostaggi ancora detenuti nella Striscia, si protraggano, ininterrottamente, da mesi. Al termine dello scorso shabbat Netanyahu ha presieduto una riunione del gabinetto di guerra per valutare le osservazioni all'accordo proposte da Hamas e impartire le istruzioni ai mediatori destinati a Doha per proseguire i negoziati.
La strada per un cessate il fuoco è, comunque, in salita e molto tortuosa. E a renderla ancor più difficile è la discesa in campo, del resto prevedibile, dei ministri dell'ultradestra nazionalista e reazionaria, gli ortodossi Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che forti della debolezza del governo Netanyahu, per la sua risicata maggioranza, proseguono con pressioni e minacce, pena l’abbandono della coalizione governativa. A loro avviso, il primo ministro non deve firmare nessun accordo, anzi deve proseguire le operazioni belliche per ottenere la definitiva e totale occupazione della Striscia.
Oggi, lunedì 7 luglio, Benjamin Netanyahu sarà in visita negli Stati Uniti. L'incontro, con il capo della Casa Bianca, Donald Trump, sarà incentrato su due questioni: la presa d’atto della vittoria d’Israele e degli Stati Uniti contro l'Iran e la proposta del cessate il fuoco nella guerra tra Israele e Hamas. Ma le incognite sono tante, le principali: che fine ha fatto l'uranio arricchito di cui era in possesso la Repubblica Islamica? E Netanyahu è in grado o meno di controllare tutti i componenti della sua coalizione governativa, soprattutto quelli dell'estrema destra, in vista di un eventuale accordo?
Ma ad agitare ancora di più le acque all'interno del mondo islamico, in modo particolare, della Cisgiordania, è giunta inaspettata la proposta dello sceicco di Hebron, Wadee' al-Jaabari, conosciuto come Abu Sanad, che sarebbe pronto a separarsi dall'Autorità Palestinese, guidata da Abu Mazen, e a firmare un’intesa, simile agli “Accordi di Abramo”, con lo Stato d'Israele. Un patto che potrebbe portare al riconoscimento dello Stato ebraico e alla costituzione di un Emirato di Hebron. Jaabari ha anche sottolineato che la sua proposta è sostenuta dagli altri tredici sceicchi del comprensorio di Hebron.
Un fulmine a ciel sereno che ha scosso la politica sia israeliana che palestinese. Iniziativa, che se andasse a buon fine, riunirebbe gli altri sceiccati, comprendenti le aree di Betlemme, Gerico, Nablus, Tulkarem, Jenin, Qalqilya e la stessa Ramallah, facendo nascere così gli Emirati di Hebron. Sempre Jaabari ha dichiarato di essere disposto a fare questa epocale trasformazione, in cambio del sostegno di Israele alla rimozione dell'Autorità Nazionale Palestinese dall'area, al ripristino dei permessi di lavoro sospesi dopo il 7 ottobre 2023, alla realizzazione di zone industriali e artigianali congiunte, israelo-palestinesi, in alcune parti dell'Area C degli accordi di Oslo.
Proposta che porterebbe alla cancellazione dell'Autorità Palestinese, ma che non è valutata positivamente né dai vertici dell'esercito israeliano, né dallo Shin Bet, i servizi segreti interni, che, invece, vedono nell'A.P. l'unico organismo ancora in grado di aiutare realmente Israele a combattere il terrorismo in Cisgiordania. A Hebron, comunque, serpeggiano tra gli abitanti della zona molti malumori, ritengono, infatti, la proposta dello sceicco un'iniziativa personale, che non rappresenta la volontà del popolo palestinese.
Va detto che tra le controproposte di Hamas, per un eventuale accordo con Israele, c'è anche la richiesta esplicita della liberazione di mille palestinesi condannati a pene detentive, inclusi cento ergastolani. Tra questi, Marwan Barghouti, che sta scontando qualcosa come cinque ergastoli. Nonostante il suo passato da terrorista è considerato un potenziale successore del presidente Abu Mazen, in quanto è ritenuto una figura unificante anche dai suoi avversari politici. Hamas, oltre all’accettazione della tregua di 60 giorni, consegnerebbe agli israeliani 10 ostaggi vivi e 18 corpi di prigionieri uccisi.
Mentre si parla di cessate il fuoco, di ipotetici accordi di Hebron e di un possibile cambio ai vertici dell'Autorità Palestinese, sta passando sotto silenzio quello che è accaduto nei giorni scorsi in Israele: uno scontro interno tra coloni armati come i soldati al fronte e la polizia e i militari israeliani. Segnali di una guerra civile strisciante, alimentata da un odio viscerale che ispira quel radicalismo sovversivo ebraico che vuole prendere il sopravvento nel Paese. La violenza dei coloni è ormai incontrollabile, sostenuti dai ministri più estremisti dell'attuale governo, ora si rivoltano contro le stesse istituzioni. Un odio che va fermato prima che travolga sia gli israeliani che gli arabi. Ritorna alla mente il brutale assassinio di Itzhak Rabin, ucciso trent'anni fa, da un estremista ebreo, proveniente proprio da questo mondo oltranzista dei coloni.
L'accordo con l'Iran non ferma la violenza in Israele
Sette militari israeliani uccisi a Khan Younis, ottantasei palestinesi a Gaza: è il tragico bilancio di una giornata che si era aperta all'insegna della speranza anche per il conflitto con Hamas. La diplomazia al lavoro e l'appello del Papa.
L'ansia del Libano, il vaso di coccio tra Israele e Iran
I droni minacciosi israeliani sotto il cielo di Beirut e il timore che Hezbollah scenda in campo direttamente con l'Iran: «Per noi sarebbe la fine». Reportage dal Paese dei cedri dopo la "guerra dei 12 giorni".
Tra Iran e Israele il vincitore è Trump
Conclusa la "guerra dei 12 giorni", sia Netanyahu che gli ayatollah cantano vittoria, ma il vero protagonista della vicenda è il presidente americano, che ha probabilmente avuto l'appoggio della Russia.
Missili su Israele, mentre Gaza è al collasso umanitario
L'attacco iraniano semina angoscia tra gli israeliani e mostra le prime crepe nel sistema di difesa. Intanto prosegue l’aggressione sulla Striscia, mediaticamente silenziata dall’estendersi del conflitto: chi non muore sotto le bombe, muore per fame.