Una Messa da sogno ovvero il Vetus Ordo nel Novus Ordo
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La Messa come avrebbe potuto essere, conservando riti, preghiere e gesti del Vetus Ordo anche nel Novus Ordo. Un sogno che riguarda soprattutto i sacerdoti, ma anche il popolo.

“I have a dream / Io ho un sogno”: così Martin Luther King il 28.08.1963 e da allora personaggi importanti e profetici anche nella Chiesa cominciarono a sognare, come il card. Martini che nel discorso di sant’Ambrogio 1996 esclamò: «Alla fine del millennio lasciateci sognare!». Di recente sono apparsi “sogni liturgici”: reinventare nuovi canoni come negli anni ’70 e ’80, rivedere il linguaggio di orazioni e prefazi in modo esistenziale, evitare di rivolgerci a Dio come “Maestà” dal momento che siamo figli, postulare «un vero laboratorio (...) che dia inizio a una riforma liturgica, senza paura» (E. Bianchi in VP 2025/01, p. 51). Tutti sogni progressisti e quindi ben accolti.
Più difficile invece nella Chiesa è sognare un futuro che recuperi un passato perduto. E tuttavia, come di fronte alla proposta di eliminare l’Orate fratres, Paolo VI osservò: «Sarebbe una gemma perduta» (Annibale Bugnini, La riforma liturgica. CLV Edizioni liturgiche, Roma 1997, p. 376), allo stesso modo vorrei qui andare alla riscoperta di alcune “gemme” della Messa Vetus Ordo “perdute” nella Messa Novus Ordo, ma che avrebbero potuto essere inserite senza modificare l’impianto attuale, mantenendo un legame più forte con il rito precedente. Un cammino pericoloso, perché ufficialmente non si dice mai che la riforma ha avuto dei limiti e che potrebbe/dovrebbe essere revisionata; anzi, «la riforma liturgica è irreversibile» (Papa Francesco, Discorso al CAL 24.08.2017) e ancora - roba da far invidia alla Pravda - «è meglio evitare di usare la espressione “riforma della riforma”» (Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede: Alcuni chiarimenti sulla celebrazione della Messa, 11.07.2016).
Per cui qui ci si ridurrà a sognare ciò che avrebbe potuto essere la Messa di oggi con una più generosa continuità con la Messa di ieri e limitandosi a pochissimi testi/riti.
Anticipo un’obiezione: ciò che qui si sognerà riguarda per lo più il sacerdote e non il popolo. È formalmente vero, ma sostanzialmente falso, in quanto il sacerdote oggi è rivolto al popolo e con più facilità trasmette ad esso lo “spirito” che viene in lui formato da certe parole che dice e da certi gesti rituali che le accompagnano: il popolo vede e magari anche sente e si imbeve dello stesso spirito senza bisogno di spiegazioni verbali.
All’inizio della Messa VO, dopo le preghiere “penitenziali” ai piedi dell’altare, il sacerdote sale all’altare dicendo sottovoce: «Signore, ti preghiamo, allontana da noi le nostre iniquità perché con mente pura meritiamo di entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. Amen». Poi appena giunto all’altare, inchinato e con le mani giunte su di esso e baciandolo a metà della formula, dice: «O Signore, per i meriti dei tuoi Santi, dei quali qui vi sono le loro reliquie, e di tutti i Santi, ti preghiamo di perdonare con indulgenza tutti i miei peccati».
La seconda formula è difficile da inserire nella Messa attuale perché fa riferimento alle numerose reliquie conservate nella cappella papale del Laterano e in molte chiese di oggi quasi non ci sono più reliquie, ma la prima formula perché non potrebbe anche oggi accompagnare il bacio del sacerdote all’altare appena giunto in presbiterio? Ci sono infatti due cenni preziosi che orientano lo spirito con il quale vivere la celebrazione: la coscienza di entrare nel Santo dei Santi, cioè in comunione con la liturgia del cielo, e la coscienza di dover celebrare con una “mente pura” grazie a una purificazione del Signore che “allontana da noi le nostre iniquità”. Sintonizzando lo spirito su queste due richieste, tutta la presidenza della celebrazione risulterà diversa da tante celebrazioni attuali.
Nulla da modificare nella Liturgia della Parola se non la preghiera del sacerdote prima del Vangelo, si intende in assenza del diacono. Oggi il sacerdote dice: «Purifica il mio cuore e le mie labbra, Dio onnipotente, perché possa annunciare degnamente il tuo santo Vangelo». Una bella preghiera, ma quella del VO è più bella e più ricca.
Infatti così suona: «O Dio onnipotente, purifica il mio cuore e le mie labbra, tu che purificasti le labbra del profeta Isaia con un carbone ardente, perché grazie alla tua misericordia, sia purificato per annunciare degnamente il tuo santo Vangelo». È prezioso il riferimento scritturistico a Is 6,6-7 (messo lì ai tempi di “esilio della Bibbia” e tolto ai nostri tempi quando abbiamo finalmente ritrovato la Bibbia e la lectio divina!), ma anche l’accentuata richiesta di purificazione, che, invocata nella preghiera e tenuta presente nell’omelia, forse cambierebbe qualcosa in meglio. Le parole sono anche rafforzate da una ritualità: «il sacerdote, ritto con le mani giunte, innalza gli occhi verso Dio e, abbassandoli subito e profondamente inchinato, dice in segreto: O Dio onnipotente ecc.». Questa è una gemma perduta che avrebbe benissimo potuto non essere perduta.
Sui riti dell’offertorio c’è molto da dire. Il VO vedeva il pane e il vino non solo presentati, ma offerti con un iniziale senso di sacrificio e ovviamente i testi e la ritualità erano su questa linea. Quando furono proposte le formule attuali “Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo ecc.”, Paolo VI osservò che esse «non hanno alcuna intenzionalità oblativa», a meno di aggiungere un “che ti offriamo”. Il “Consilium” si espresse in negativo e la resistenza a non introdurre termini di oblatività/sacrificio era motivata dal «non anticipare o sminuire il valore dell’unica vera offerta di Cristo immolato, espressa nel canone». Nonostante ciò il “che ti offriamo” rimase «potendosi provvedere [a mascherarlo: N.d.R.]... con le traduzioni» (!) e infatti la traduzione italiana non dice “offriamo”, ma “presentiamo” (Annibale Bugnini, La riforma liturgica. CLV Edizioni liturgiche, Roma 1997, pp. 375-376).
Invece conservando, ritoccando e semplificando un poco le formule del Vetus Ordo, oggi il Novus Ordo all’offertorio potrebbe essere così: alla presentazione del pane il sacerdote, «elevati gli occhi a Dio e subito abbassati», dice: «Accetta, Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno, questa ostia immacolata che ti offriamo per tutti i fedeli circostanti, ma anche per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti affinché a noi e a loro procuri la salvezza nella vita eterna» (formula semplificata), poi depone la patena sul corporale tracciando prima con essa un segno di croce orizzontale sul corporale stesso; alla presentazione del calice il sacerdote dice: «O Signore, ti offriamo il calice della salvezza e imploriamo la tua clemenza perché con odore di soavità salga al cospetto della tua divina maestà per la salvezza nostra e di tutto il mondo» e lo depone sul corporale allo stesso modo dell’ostia con la patena. L’“odore di soavità” che accompagna l’offerta può vantare tante citazioni dell’AT, ma anche del NT (Ef 5,2; Fil 4,18). Infine è prevista una sorta di epiclesi con una suggestiva ritualità: il sacerdote «eleva gli occhi, allarga le mani, le porta in alto e congiungendole davanti al petto (movimento circolare)», dice: «Vieni , santificatore, Dio onnipotente ed eterno e benedici [il sacerdote benedice con un segno di croce orizzontale] questo sacrificio preparato per il tuo santo nome».
I gesti rituali che accompagnano le parole, soprattutto per la quasi epiclesi, aiutano ad “entrare nel mistero” più di centomila blà blà blà di spiegazioni. È chiaro che non siamo formalmente nel sacrificio eucaristico del canone, ma i testi/riti sacrificali sono giustificati dal fatto che pane e vino sono nostre “offerte” che simboleggiano molto di più di pane e vino, e sono offerti per essere trasformati e diventare il sacrificio di Cristo e dunque non c’è nulla di strano di esprimere già dall’offertorio questa intenzionalità. E così è bello sognare che sarebbe avvenuto.
Sulle parole e sui riti che gravitano intorno alla comunione, tralascio le questioni sulla mano o sulla bocca, in piedi e in fila o inginocchiati sulla balaustra o su di un banco ad hoc in quanto già ampiamente qui dibattute. Tralascio la suggestione - difficile e da studiare bene - di recuperare l’immissione nel calice di una parte di ostia con la formula «La pace del Signore sia sempre con voi» e tre segni di croce sul calice con il frammento di ostia. Mi riferisco invece alle formule e al modo della comunione del sacerdote, oggi molto brevi: «Il Corpo/Sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna».
Si può per contro sognare che al loro posto per la comunione del sacerdote fossero rimaste le formule e i riti più ricchi del Vetus Ordo. Ad esempio, con qualche ritocco funzionale a non stravolgere il Novus Ordo, prima della comunione il sacerdote fa la genuflessione e dice: «Prenderò il pane celeste e invocherò il nome del Signore», poi tenendo l’ostia in mano traccia un segno di croce su di se stesso dicendo: «Il Corpo del Signore nostro Gesù Cristo custodisca la mia anima [o “mi custodisca”, come il Novus Ordo] per la vita eterna» e assume il Corpo di Cristo. Stessi gesti per il calice, ma con la formula: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Prenderò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore. Lodandolo invocherò il Signore e sarò salvo dai miei nemici», formula che per la prima parte risale al Sal 115,12-13 e per la conclusione a 2Sam 22,4 secondo la vulgata (di nuovo, con il concilio abbiamo scoperto la Bibbia, poi ne cancelliamo le citazioni...). Il popolo sarebbe molto edificato al vedere che il sacerdote si segna con l’ostia e con il calice prima di assumere il Corpo e il Sangue e forse molti farebbero la comunione con più profondità di spirito.
Poi prima della purificazione del calice il sogno è che fosse rimasta la bella preghiera del sacerdote: «O Signore, il tuo Corpo che ho assunto e il Sangue che ho bevuto aderiscano alle mie viscere e fa’ che, rinnovato dai tuoi puri e santi sacramenti, non rimanga in me macchia di peccato».
Per finire i sogni, sarebbe bello che la benedizione finale fosse preceduta ancora oggi dalla gestualità del Vetus Ordo: il sacerdote «eleva al cielo gli occhi e le mani, le estende e le ricongiunge, inclina il capo (alla Croce) e dice: Vi benedica ecc.».
Come ognuno se ne avvede, non s’è fatta parola sul canone perché merita un articolo tutto per sé e sappiano i venticinque lettori che entreranno in un paese delle meraviglie. Alla prossima.