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ISLAM

Mosul, l'Isis se ne va ma la sharia resta

Mosul è stata liberata dall'Isis. E' finito il loro dominio improntato sull'applicazione rigidissima della sharia. Ma gli studenti che sono tornati all'università hanno trovato una brutta sorpresa: un codice di vestiario, fra cui il velo per le donne, obbligatorio per tutti, anche per i cristiani. Perché l'Isis è sconfitto, ma non l'islamismo.

Esteri 24_10_2017
Mosul, i poster appesi dall'Isis

Vestito a giacca e capelli rigorosamente corti per gli uomini, abito lungo e coprente con hijab d'ordinanza per le donne. È il codice di vestiario che tutti gli studenti che si sono arrischiati a tornare all'Università di Mosul dovranno rispettare per partecipare a corsi e lezioni. Il velo è imposto non solo alle ragazze musulmane, ma anche a quelle cristiane e di altre religioni. I capelli lunghi sono banditi come quando in città governavano ancora i jihadisti. Nonostante l'Isis sia stato sconfitto e cacciato dalla città a luglio, dopo oltre tre mesi dalla liberazione sembra che l'ideologia da cui è scaturito, e che ha propugnato per tre lunghi anni, non sia affatto morta a Mosul.

La capitale economica dell'Iraq è stata presa dai jihadisti nel giugno del 2014 e liberata dall'esercito iracheno il 9 luglio 2017. Durante la sua occupazione, i terroristi islamici hanno compiuto ogni tipo di crimine: hanno cacciato i cristiani dalle loro case minacciandoli di morte e si sono impossessati dei loro beni, distrutto statue della Madonna e chiese, usandole come prigioni o poligoni di tiro, imposto la sharia a tutti gli abitanti, obbligato musulmani e non a recarsi in moschea per la preghiera del venerdì, pena carcere e frustate, taglieggiato la popolazione con tasse e prelievi forzati, ucciso in modo indiscriminato chiunque si opponesse al loro governo e distrutto importanti vestigia storiche della città considerate “haram”, illegittime secondo la legge islamica.

Dopo una battaglia lunga 266 giorni, i terroristi sono stati cacciati da Mosul ma l'ideologia islamica è rimasta viva tra le macerie. Dopo la vittoria dell'esercito iracheno, Amel Nona era stato tra i primi a smorzare l'entusiasmo. L'ex vescovo di Mosul, costretto a fuggire da un giorno all'altro come migliaia di altri cristiani, disse ad agosto: «È difficile sostenere che l’Isis sia stato sconfitto a Mosul e dintorni. L’Isis infatti è un modo di pensare e agire, nato in una società islamica che ritiene di avere il diritto di fare ciò che vuole pensando che il suo credo sia l’unico legittimo e che dovrebbe essere imposto a tutte le altre persone. Anche se Mosul è stata liberata militarmente, c’è ancora un’altra battaglia da combattere: quella per cambiare e sconfiggere la culla che genera questo modo di pensare e agire». L'attuale vescovo caldeo dell'Australia e della Nuova Zelanda era stato anche tra i primi ad avvertire che «per i cristiani sarà difficile tornare a Mosul perché sanno benissimo che la società responsabile della nascita dell'Isis esiste ancora, proprio come tre anni fa».

Il cartello che oggi impone agli studenti e alle studentesse dell'Università di Mosul capelli corti e hijab sembra purtroppo dargli ragione. E non è un caso se anche il patriarca caldeo di Baghdad, Mar Louis Raphael I Sako, ha indicato come priorità per il governo quella di sconfiggere «la mentalità dell'Isis». Parlando a Roma alla conferenza internazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre, dopo aver ricordato che «i cristiani sono passati da 1,5 milioni a meno di 500 mila, un vero genocidio» causato anche «dall'odio dei musulmani verso i cristiani», Sako ha spiegato: «È necessario sostenere l'istruzione come antidoto al fondamentalismo e alla mentalità tribale ancora vigente e basata su vendetta e violenza, promuovere il dialogo politico e culturale, separare religione e Stato, lavorare per una Costituzione forte che garantisca diritti di cittadinanza a tutti, continuare a fornire aiuto umanitario».

Che il grande male dell'Iraq, più che l'Isis, sia l'ideologia islamista, l'ha confermato pochi giorni fa anche il sacerdote iracheno padre Benham Benoka a Radiovaticana, affermando: «A Mosul la situazione è ancora gravissima. La questione non riguarda lo Stato islamico. La gente non torna a Mosul a causa dell'ideologia che ha devastato la cultura della gente. In alcuni casi, i cristiani si sono sentiti minacciati quando sono tornati nella città appena liberata». Il gruppo di Al-Baghdadi è vicino alla dissoluzione, ma la battaglia contro l'estremismo islamico è tutt'altro che finita.