Morte cerebrale e dignità, le domande del caso Archie Battersbee
Tra le tante questioni sollevate dalla vicenda del caso Archie Battersbee, il 12enne morto sabato scorso in un ospedale di Londra dopo il distacco del ventilatore voluto dai medici e ordinato dai giudici, merita sottolineare le strumentalizzazioni della morte cerebrale. E l'ambiguità del concetto di dignità umana.
«Archie Battersbee è morto sabato pomeriggio… (Archie Battersbee passed away on Saturday afternoon…): inizia così il comunicato stampa del Barts Healt NHS Trust, il fondo che amministra il Royal London Hospital protagonista della battaglia legale contro i genitori di Archie per poter rimuovere i sostegni vitali al 12enne in coma dal 7 aprile scorso. Dunque, anche l’ospedale ci dice che Archie è morto sabato 6 agosto. E non il 10 aprile quando i medici hanno chiesto ai genitori di poter espiantare i suoi organi. E neanche il 31 maggio, giorno della risonanza magnetica che secondo il giudice avrebbe constatato la morte del ragazzino. È morto il 6 agosto, dopo che gli era stato tolto il ventilatore che lo teneva in vita; è morto per soffocamento, ed è stato uno spettacolo agghiacciante, ci ha testimoniato una persona presente. Dunque, se le parole hanno un senso, Archie era vivo fino alle 14 di sabato 6 agosto, per stessa ammissione dei medici.
Sta proprio qui una delle questioni che la vicenda di Archie ha riportato in primo piano. Quando si può dichiarare morta una persona? Oggi generalmente si fa coincidere la morte della persona con la morte cerebrale, ovvero con la definitiva cessazione di qualsiasi attività encefalica. Tale definizione però incontra crescenti contestazioni, come abbiamo documentato in un’inchiesta di quattro anni fa (qui, qui e qui).
Il caso di Archie inoltre ci fa comprendere a quali rischi ci si espone dando troppo per scontato il concetto di morte cerebrale. Secondo le leggi in vigore se si seguissero tutte le procedure, si dovrebbero prima effettuare tutti gli esami e i controlli necessari per arrivare alla diagnosi di morte cerebrale; e in quel momento si può dichiarare ufficialmente la morte della persona. È a quel punto che, eventualmente, si può parlare di espianto degli organi.
Nel caso di Archie si è dato per scontato che ci fosse morte cerebrale senza aver effettuato tutti gli esami richiesti, tanto che Hollie Dance, la mamma di Archie, ha sempre lamentato di essere stata pressata a donare gli organi fin dal secondo giorno di ricovero di Archie al Royal London Hospital (tre giorni dopo l’incidente). E quella gamma di esami non è stata mai terminata tanto che nella sentenza dell’Alta Corte del 13 giugno il giudice fa propria la tesi dei medici secondo cui era «altamente probabile» la morte cerebrale di Archie.
Affermazione che ha fatto sobbalzare perfino i sonnacchiosi vescovi inglesi: in una dichiarazione del 23 giugno, il vescovo ausiliare di Westminster, John Sherrington, responsabile vita della Conferenza episcopale, ha detto che è necessaria «la certezza morale prima di riconoscere la morte», ovvero vanno seguiti «criteri neurologici precisi». Cosa che «non è stata fatta» nel caso di Archie. «Non si può giudicare sulla vita e sulla morte in base a criteri di probabilità affermando che “è probabile o molto probabile” che sia morto». Monsignor Sherrington concludeva affermando che non sarebbe stato lecito rimuovere i sostegni vitali senza la certezza della morte.
L’assurdità della sentenza – potenziale boomerang per i medici – deve essere apparsa evidente anche nelle successive fasi giudiziarie tanto che il discorso, per raggiungere l’obiettivo, si è poi concentrato esclusivamente sul “miglior interesse” di Archie. E in base a questo si è sentenziato che Archie doveva morire, e morire in ospedale. Tanto che la sua morte è stata certificata solo il 6 agosto, dopo il distacco del ventilatore.
Va dunque registrato questo inquietante passaggio in cui lo Stato decide di far morire una persona neanche più giustificandosi con criteri oggettivi.
Un secondo aspetto che tutta la vicenda di Archie fa risaltare riguarda il concetto di “dignità”. Curiosamente sia i medici e i giudici da una parte sia i familiari di Archie dall’altra hanno spesso invocato la dignità di Archie per sostenere le proprie posizioni. Si è invocata la “dignità” per farlo morire e si è invocata la “dignità” per tenerlo in vita e anche per trasferirlo in un hospice quando non c’era più nulla da fare. Cosa è dunque dignitoso? O in cosa consiste la dignità umana? È possibile riconoscere un significato oggettivo di tale dignità?
È qui che si fa chiara la differenza tra una visione religiosa e una agnostica o atea, tra il riconoscimento dell’uomo come trascendenza e una concezione materialista. La vera dignità dell’uomo consiste nell’essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio e nell’essere chiamato alla vita eterna. Per questo la sua vita è indisponibile, e il suo corpo non può essere trattato come un oggetto. Ma se non si riconosce questa creaturalità, allora la dignità viene ridotta a qualità della vita (come nel caso dell’eutanasia e dell’aborto) o comunque a criteri utilitaristici: a certe condizioni si diventa pesi per la società. È la dimostrazione che senza Dio l’invocata dignità diventa in realtà profondamente disumana.
È anche quello che avvertiva con chiarezza Benedetto XVI, che invitava infatti anche gli atei a vivere «come se Dio esistesse»: «Sarebbe bello – disse in un messaggio ai partecipanti al “Cortile dei gentili” il 16 novembre 2012 – se i non credenti cercassero di vivere "come se Dio esistesse". Anche se non abbiamo la forza di credere, dobbiamo vivere sulla base di quest’ipotesi, altrimenti il mondo non funziona. Ci sono molti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto se Dio non è posto al centro, se Dio non diventa nuovamente visibile nel mondo e determinante nella nostra vita».
Quanto è avvenuto ad Archie ne è ancora una volta la dimostrazione.