Mortara, nel “Rapito” di Bellocchio un castello di falsità
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La Bussola ha visto la pellicola di Bellocchio sul caso del bambino ebreo battezzato in pericolo di morte e poi separato dai genitori. La Chiesa dipinta in modo truce, la fede irrisa, la reale devozione di Edgardo trattata come frutto di plagio: falsità smentite dagli scritti dello stesso don Mortara.
Dal 25 maggio è in proiezione nelle sale Rapito, il film di Marco Bellocchio sul caso Mortara di cui la Bussola ha già ricostruito le tappe principali. Abbiamo visto il film, che nella sua interezza conferma quanto risultava già evidente dal trailer e dall’ampia campagna pubblicitaria: in Rapito, “liberamente ispirato” a un libro che già di suo aveva alimentato la leggenda nera contro la Chiesa, non c’è nessun interesse a rappresentare la verità. Del resto, se Bellocchio avesse basato la sua pellicola sul memoriale autografo del 1888 e sulle altre diverse testimonianze rese nella sua vita dallo stesso Edgardo Mortara (1851-1940), difficilmente il regista avrebbe ricevuto 13 minuti di applausi in quel di Cannes e presumibilmente non lo avrebbero nemmeno selezionato per il Festival.
Della prima mistificazione avevamo già detto commentando il trailer: il film salta a piè pari tutti i tentativi di conciliazione che la Chiesa mise in atto prima del sequestro cui si vide costretta dall’intransigenza dei coniugi Mortara. Tra questi tentativi, l’offerta di allevare Edgardo in un collegio cattolico di Bologna fino alla maggiore età (raggiunta la quale avrebbe preso le sue decisioni), a spese della stessa Chiesa e dove i genitori avrebbero potuto visitarlo liberamente.
Fin dalle prime scene lo spettatore è invece immerso in atmosfere cupe, a partire dal campanello che suona in piena notte a casa Mortara, con il maresciallo - inviato dal Sant’Uffizio e senza alcun preavviso - che comunica agli sconvolti genitori la notizia del battesimo. Irruzione notturna cui segue di lì a un paio di giorni - nei tempi falsati del film - il sequestro.
Le varie figure di sacerdoti coinvolti nel caso vengono dipinti in modo truce. Pio IX è rappresentato come irascibile, superbo e attaccato al potere. La fede viene abilmente ridotta a macchietta, anche attraverso figure di bambini volte a catturare la simpatia del pubblico (vedi Elia, che dopo la Comunione spiega a Edgardo di star facendo «la contemplazione di Cristo»). Oppure è ridotta a superstizione, sia nei suoi simboli, come il crocifisso («è un portafortuna», risponde a un certo punto Edgardo a chi gli chiede che cosa porti al collo) sia nelle persone che la professano, come la cameriera che dice al piccolo Mortara di non mettere il cappello sul letto perché porta sfortuna. La figura della giovane Anna Morisi, la domestica che battezzò Edgardo in articulo mortis, viene restituita con appiccicate tutte le nefandezze di questo mondo: ladra, donna di facili costumi, bugiarda, corrotta. Don Pio Maria Mortara, nel suo già citato memoriale, ricordava che quella giovane - da lui definita sua «propria madre nell’ordine soprannaturale» - aveva dovuto lasciare Bologna «per sfuggire a violente vessazioni e rappresaglie» da parte dell’ampia fazione che avversava la Chiesa.
Ma tra tutte le mistificazioni, a uscire più offesa dal film di Bellocchio è proprio la figura di Edgardo Mortara, sia da piccolo che da adulto. La pellicola deforma tutto il suo vissuto, che fu un vissuto di reale e profonda devozione fin dai primi tempi dopo il sequestro. Culmine di questa mistificazione scenica è l’incontro con la madre nei suoi primi mesi a Roma: nel film, mentre la madre - che ha appena strappato il crocifisso dal collo del figlio - viene allontanata, si vede Edgardo correre ad abbracciarla e dirle, tra le lacrime, che vuole tornare a casa dai suoi fratelli. Ma è falso.
Come racconta Edgardo in persona, i suoi genitori (eravamo ancora nel 1858) lo andarono a trovare «per un mese intero o forse due, tutti i giorni […] in casa dello stesso rettore [don Enrico Sarra]» a cui era stato affidato. Ebbene, non solo Edgardo non manifestò mai il desiderio di tornare a casa, ma già allora - a 7 anni - non desiderava altro che anche i suoi genitori abbracciassero la fede cattolica perché, amandoli, voleva che anche loro riconoscessero la verità, che è Gesù stesso. Davanti alle promesse e alle mille lusinghe dei suoi, replicava: «Sono cristiano, se volete che venga con voi, non c’è che un modo: convertitevi anche voi». Tra i primi doni che aveva ricevuto dopo il sequestro c’era lo Scapolare della Madonna del Carmelo. E a proposito val la pena citare un episodio emblematico di uno di quei giorni dell’autunno 1858: il bambino parlò alla madre con così «grande convincimento, misto a filiale affetto e tenerezza, dei sublimi misteri della religione cattolica, di Maria Santissima e del santo Scapolare», che la stessa madre, «commossa e intenerita, sciogliendosi in lacrime disse: “Anch’io, anch’io voglio questo Scapolare della Madonna”». Se non fosse stato per l’intervento di Salomone “Momolo” Mortara, che separò bruscamente la moglie dal bambino non appena si rese conto di quel che stava avvenendo, probabilmente avremmo raccontato un’altra storia di conversione. Da quel giorno Edgardo non avrebbe più rivisto i genitori per molti anni.
È evidente che l’opera invisibile della Grazia nell’animo del piccolo Mortara manca del tutto nel film di Bellocchio. Il quale sposa invece l’idea del plagio: un’idea che non regge di fronte al lucido e articolato resoconto che Edgardo-don Pio Maria Mortara fa nel suo memoriale, ricostruendo i momenti prima e dopo il sequestro, quando non c’erano nemmeno le condizioni e i margini di tempo per il plagio immaginato da chi non crede nell’onnipotenza divina. Dopo aver descritto come la Grazia avesse agito in lui fin dagli inizi, Mortara sfidava infatti il mondo ateo: «Il naturalismo moderno spieghi ora in modo soddisfacente […] come, nonostante la più accurata educazione ebraica, si sia verificata in un’esistenza incipiente una metamorfosi tanto straordinaria».
Invece di affrontare il mistero di questa metamorfosi, il film getta discredito anche sul Mortara adulto, in cui la conversione si mescola a uno squilibrio mentale e all’ingratitudine di figlio. Anche qui, la realtà è deformata. Don Pio Mortara, già all’estero per sfuggire a chi pretendeva di “liberarlo”, visse una dura prova consistente in uno stato di prostrazione e insieme di eccitazione nervosa «in conseguenza dei suoi studi e di altre prove e sofferenze morali», acuite dal suo caso, e per cui i medici gli prescrissero un periodo di riposo mentale. Una prova «addolcita», come riferisce sempre lui, dall’aiuto dei suoi confratelli, di alcune pie donne e delle benedizioni che Pio IX non gli faceva mai mancare. Ma in tutto questo non era certo in discussione la realtà della sua conversione, né il suo amore verso i familiari, attestato dalle lettere che mandava loro ogni volta che poteva.
Peccato che tutto ciò manchi nel film presentato a Cannes.