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RAPPORTO IPCC

«Moriremo arrosto», il solito allarmismo dell'ONU

È in preparazione la solita Conferenza sul Clima e puntuale arriva il Rapporto dell'IPCC, il panel dell'ONU che si occupa di cambiamenti climatici, che semina paure da fine del mondo. Non c'è nessuna nuova scoperta, in compenso diversi dati vengono "manipolati" per dare il risultato voluto.
- UN RAPPORTO CHIAMATO CATASTROFISMO, di Alessandro Martinetti

Creato 12_10_2018

Il Rapporto IPCC, stilato facendo seguito ad una richiesta della Conferenza delle Parti di Parigi (COP22), è uscito in questi giorni prima della prossima conferenza - COP24 -  che aprirà i battenti a dicembre 2018  a Katowice (Polonia), generando gli ormai soliti allarmi sul riscaldamento globale.

Lo scopo dichiarato del Rapporto è quello di fare il punto sulla situazione climatica globale, sottolineando le possibili conseguenze della non applicazione degli accordi di Parigi e della loro applicazione parziale a vari livelli. Non sono quindi presenti nuove scoperte: solo nuove discussioni e rinnovati appelli per un’applicazione, la più completa possibile, delle risoluzioni precedenti.

Il Rapporto (disponibile qui) si basa su un corposo insieme di considerazioni scientifiche che in pochi leggeranno ed è poi riassunto in un Summary for Policymakers (di qui in avanti SPM) che traccia le principali risultanze scientifiche, corredate da grafici e da livelli di confidenza che esprimono la “veridicità” delle affermazioni secondo l’usuale schema dell’IPCC.
Qui discuteremo soprattutto la parte del rapporto dedicata ai decisori politici, alla quale faremo riferimento anche come SPM mente per quanto riguarda il report completo, faremo riferimento ad una paio di aspetti riferiti ai capitoli 1 e 3.

Il sommario per i decisori politici

Abbiamo detto che l’SPM è basato sui risultati scientifici allo stato dell’arte ma in realtà poggia su un più ampio spettro di risultati/considerazioni risultando infatti basato sull’insieme della letteratura scientifica, tecnica e socio-economica rilevante per mettere a confronto gli effetti di un aumento di 1.5°C nelle temperature globali rispetto ai livelli pre-industriali e quelli di un aumento di 2°C.

Le basi del rapporto sono alcune affermazioni di cui ai punti A1, A2, A3, B1-B5 e loro sottosezioni). E si badi che quanto affermato in questi punti non si fonda tanto su dati osservativi quanto sui risultati dei modelli climatici, i quali non essendo in grado di ricostruire i dati del passato (solo in particolari situazioni riescono a farlo) non dovrebbero a rigor di logica meritare fiducia per quanto riguarda il futuro.

Riguardo alla soglia di 1.5°C, descritta come il valore limite oltre il quale secondo gli estensori del report ci avvieremmo alla catastrofe totale, bisogna dire che tutti i modelli, come ben evidenziato nel report IPCC AR5 del 2013 (clicca qui), forniscono valori troppo alti rispetto alle osservazioni e quindi sarebbero a nostro avviso da considerare quantomeno con un minimo di beneficio di inventario.

Altro punto da criticare è il previsto aumento del numero degli eventi estremi: se i dati osservativi ci indicano incrementi per alcuni eventi estremi come le ondate di caldo alle medie latitudini, per altri eventi estremi le cose non sono così chiare. Ad esempio i cicloni che hanno di recente colpito gli Stati Uniti sono avvenuti dopo una pausa di circa 12 anni in cui nessun evento di potenza adeguata aveva colpito il territorio americano. Inoltre gran parte delle catastrofi di cui le cronache recenti sono ricche sono in realtà influenzate da una cattiva gestione e manutenzione del territorio.

Alcuni commenti al cuore del rapporto

Con riferimento al corpo del Rapporto faremo anzitutto riferimento alla figura 6 presente nell’allegato al capitolo 1. In tale figura è per noi impressionante osservare che la temperatura (linea blu) si sarebbe mantenuta praticamente costante per tutto il XX secolo se non vi fosse stata l’azione perversa del cambiamento climatico di origine antropica. Una tale stazionarietà non è tuttavia possibile alla luce delle nostre conoscenze del sistema climatico, in quanto è ben nota la presenza di cicli naturali legati a fenomeni oceanici e atmosferici (che nel settore climatologico sono indicati con nomi esotici come ad esempio Enso -  El Nino Southern Oscillation, AMO – Atlantic Multidecadal Oscillation e NAO – North Atlantic Osciellation). Scopriamo inoltre che tutti i grafici della figura sono frutto dei modelli e che l’unico grafico osservativo è quello della temperatura (in nero), peraltro in questi giorni fortemente messo in discussione in virtù delle notevoli e dimostrate carenze in sede di acquisizione dati da parte delle singole stazioni meteorologiche.

Figura 1 – La linea nera indica le temperature misurate, quella blu la temperatura che i modelli stimano si sarebbe verificata senza l’effetto antropico legato all’emissione di gas serra e infine  le linee tratteggiate sono i risultati delle stime eseguite con modelli in presenza dell’effetto antropico stesso.

Al riguardo si osservi l’enorme variabilità delle temperature globali nei gelidi XVIII e XIX secolo mostrata dalla figura 2 e che è da ritenersi in massima parte frutto di variabilità naturale, in quanto trattasi di secoli in cui l’influsso umano sul clima legato alle emissioni di gas serra era oltremodo contenuto. Si noti inoltre che tali secoli afferiscono alla piccola era glaciale in cui era più che mai arduo fare agricoltura e le carestie con morti per fame imperversavano anche in Europa, con anni terribili come il 1693-95, il 1740 e il 1816.

 

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Figura 2 – Temperature globali dal 1750 ad oggi sulle terre emerse (dati Berkeley Earth). Si noti anche che la soglia di 1,5°C di cui parla il report IPCC SR1.5 è stata da tempo superata se prendiamo come riferimento gli anni più freddi del XVIII e XIX secolo. 

Alle conclusioni del Rapporto si può pertanto contrapporre questo concetto: chi mai potrebbe preferire il clima del XVIII secolo, oltremodo variabile e con freddo molto intenso e diffuso (siamo all’inizio della rivoluzione industriale e anche nella parte più fredda della Piccola Età Glaciale) al clima complessivamente mite della fine XX – inizio XXI secolo? E perché un pur improbabile riscaldamento di un paio di gradi a fine secolo dovrebbe essere tanto deleterio?

Da parte nostra possiamo sottolineare che solo se rinunceremo alla tecnologia non saremo in grado di affrontare un tale problema. In tal senso ci pare importante stigmatizzare che nel capitolo 3 (Impatti del riscaldamento globale di 1,5ºC su sistemi naturali e umani) del report IPCC in questione si scrive che “l'andamento della temperatura e delle precipitazioni ha ridotto la produzione e i raccolti, con gli effetti più negativi sul grano e sul mais (Lobell et al., 2011)".

Andando poi a leggere l’articolo di Lobell et al. del 2011, uscito su Science, si legge che applicando dei modelli di simulazione si è evidenziato che nel periodo dal 1980 al 2008 la produzione globale di mais e grano è diminuita del 3,8 e del 5,5%, rispettivamente, rispetto a simulazioni eseguite in assenza di cambiamento climatico. Decrementi di resa particolari non sono stati invece evidenziati per soia e riso.

E qui immaginiamo che il lettore estraneo al settore agricolo penserà che il calo delle rese per mais e frumento preluda a una catastrofe, il che è falso in quanto tali minuscoli cali di resa sono surclassati dal  formidabile incremento delle rese globali registrato in questi ultimi 60 anni. Ad esempio, secondo le statistiche globali di USDA confermate da quelle della FAO, dal 1961 ad oggi la resa globale del mais è aumentata del 293%, quella del frumento del 297%, quella del riso del  241% e quella della soia del 242%. Per inciso si consideri che dalle 4 colture citate dipende oggi oltre il 65%  del fabbisogno calorico dell’umanità.

Enfatizzare cali di resa tanto piccoli (3.8% e 5.5%) dovuti agli eventi meteorologici estremi scordandosi di segnalare gli incrementi rilevantissimi che le rese reali hanno subito dal 1961 ad oggi è un vezzo sempre più diffuso nella letteratura scientifica internazionale e di conseguenza nei report dell’IPCC che da tale letteratura attingono. Da parte nostra non crediamo che si tratti di innocenti peccati di omissione, in quanto è proprio basandosi su tali dati che i media riescono a trasformare un grande successo del mondo agricolo, frutto di innovazione tecnologica e di un clima in complesso non sfavorevole all’agricoltura, in una vera e propria spada di Damocle che grava sull’intera umanità.

Ciò è indice di un atteggiamento culturale qualificabile come “catastrofismo” e che mira a minare la nostra fiducia nel futuro dell’umanità, il che è particolarmente grave nei confronti delle giovani generazioni, che nei prossimi anni saranno chiamate a modificare in meglio il mondo che abbiamo lasciato loro e che non è affatto composto solo da rovine come troppe “dame di carità” (per dirla con Giovanni Guareschi) sono oggi ansiose di farci credere.

Segnaliamo infine che del succitato incremento di resa delle grandi colture una frazione non enorme ma certo significativa (grossomodo un  20-30% dal 1961 ad oggi) si deve all'incremento dei livelli atmosferici di CO2 che migliorano la nutrizione carbonica dei vegetali aumentandone anche la resistenza alla siccità.