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IPCC

Un Rapporto di nome catastrofismo

Il nuovo Rapporto dell'IPCC sui cambiamenti climatici rilancia i soliti allarmi sulla catastrofe che sarà conseguenza del riscaldamento causato dalle attività umane. Ma esclude i dati dei satelliti, che smentirebbero tanto allarmismo.

Svipop 11_10_2018

L'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, ossia il gruppo costituito presso le Nazioni Unite per lo studio sul cambiamento climatico) ha pubblicato un rapporto, intitolato “Riscaldamento globale di 1,5°C”. Sottotitolo: “sugli effetti del riscaldamento globale di 1.5 °C sopra i livelli pre-industriali e sui connessi andamenti dell'emissione globale di gas serra, in relazione sia al rafforzamento della risposta globale alla minaccia del cambiamento climatico, sia allo sviluppo sostenibile, sia agli sforzi per sradicare la povertà”.

La titolazione è già eloquente, ed è una scontata conferma: l'IPCC è convinto che sia in atto un riscaldamento globale prevalentemente causato dalle emissioni di gas serra ad opera delle attività umane, riscaldamento che oltre una certa temperatura diventerebbe sempre più dannoso. Nel dettaglio, il rapporto afferma che, rispetto all'età preindustriale (cioè: rispetto alle temperatura globale media dei 51 anni 1850-1900), le attività umane hanno causato un riscaldamento globale di circa 1 °C, che con ogni probabilità raggiungerà 1.5°C tra il 2030 e il 2052 se si continua di questo passo. Le emissioni antropiche degli ultimi 150 anni seguiteranno ad agire causando indesiderabili cambiamenti climatici, ma è improbabile che da sole possano far raggiungere quel temibile 1,5 °C.

Quindi – sostiene il rapporto - c'è ancora margine di manovra: precisamente, l'IPCC stima che per rimanere al di sotto di 1,5 °C (o quantomeno per non sforare granché), le emissioni antropogeniche di CO2 debbano entro il 2030 calare di circa il 45% rispetto ai livelli del 2010, azzerandosi intorno al 2050. Invece, per stare sotto ai 2 °C (ma la differenza tra 1,5 e 2 °C non sarebbe affatto indolore in termini di sconvolgimenti ambientali), i modelli dicono che le emissioni devono ridursi di circa il 20% entro il 2030 e azzerarsi intorno al 2075.

L'abbattimento nelle emissioni deve dunque essere celere e drastico, investendo tutti i settori. Il rapporto sostiene inoltre che le riduzioni delle emissioni decise dai Paesi firmatari dell'accordo di Parigi del 2015 non sono sufficienti a evitare che si raggiunga il famigerato 1,5 °C entro il 2030, neanche se dopo quella data intervenisse un severissimo abbattimento delle emissioni stesse. Quindi, secondo il rapporto, l'accordo di Parigi è già inadeguato a centrare l'obiettivo prioritario.

Fermiamoci qui. Ci sarà modo di tornarci su, tanto più che in queste ore le reazioni sono numerosissime, come era prevedibile. Ci limitiamo ad un'osservazione, che tuttavia ci pare di non trascurabile rilevanza.

Domanda: sulla base di quali dati l'IPCC calcola le temperature globali dall'Ottocento a oggi? Risposta: lo fa sulla base di tre dataset (HadCRUT, NCDC-NOAA e GISS) costruiti su misurazioni solo in superficie. E i dataset basati su misurazioni satellitari? L'IPCC non li usa. Il climatologo Ole Humlum, nel curare il sito climate4you, usa come dati “di prima qualità” solo quelli satellitari, qualificando come di seconda o terza qualità quelli da misurazioni in superficie. Non è una scelta capricciosa, una discriminazione iniqua e immotivata. Spiega Humlum: “È realistico riconoscere che le misurazioni della temperatura non sono tutte di uguale qualità scientifica”. Infatti “in tutti e tre i dataset da misure in superficie della temperatura dell'aria, ma in particolare in NCDC e GISS, vengono spesso introdotte modifiche amministrative ai valori, anche per osservazioni di diverse anni addietro. Alcuni cambiamenti potrebbero essere dovuti all'aggiunta ritardata di nuovi dati di una stazione, mentre altri probabilmente hanno origine da un modifica della tecnica di calcolo dei valori medi. È chiaramente impossibile valutare la validità di tali modifiche amministrative per l'utente esterno. Inoltre, i tre dataset di superficie rappresentano una combinazione di dati sulla superficie del mare raccolti da navi in movimento o con altri mezzi, più dati provenienti da stazioni terrestri dalla qualità parzialmente sconosciuta e dallo sconosciuto grado di rappresentatività per la loro regione. Molte delle stazioni terrestri si sono spostate anche geograficamente durante la loro esistenza, e la loro strumentazione è cambiata.” Certamente, “anche le misurazioni dei satelliti hanno i loro problemi, ma questi sono generalmente di natura più tecnica e quindi correggibili. Inoltre, il campionamento della temperatura da parte dei satelliti è più regolare e completo su base globale di quello garantito dalle misurazioni di superficie.”

In definitiva, i metodi con cui avvengono le misurazioni in superficie usate nei tre dataset cui si affida l'IPCC sono 1) non sufficientemente idonei a restituire un affidabile valore della temperatura globale dell'aria sopra gli oceani (inconveniente non da poco, visto che le acque coprono il 70% del pianeta), 2) inadeguati, a causa in particolare del numero e della distribuzione delle stazioni di rilevamento, a fornire dati attendibili sulla reale temperatura di parecchie regioni delle terre emerse.

A conferma del punto 1, si osservino questi due grafici (qui, qui), che mostrano quanto sia grande la discrepanza tra la temperatura dell'aria sugli oceani riportata dai dataset Had e NCDC-NOAA rispetto ai valori forniti dalla più qualitativa misurazione di superficie, quella eseguita a partire dal 2000 nell'ambito del progetto Argo (che dispiega negli oceani circa 3200 sonde robotiche galleggianti programmate per operare misurazioni della temperatura dalla superficie a 2000 metri di profondità). Si consideri per giunta che la discrepanza è tanto rimarchevole nonostante il fatto che, nei due grafici, il dato Argo reale sia stato alzato per facilitare la confrontabilità: alzato di 0,2 °C nel grafico riferito a Had, e addirittura di 0,4 °C in quello riguardante NCDC. Questo grafico mostra invece come i dati Argo reali siano in linea con quelli satellitari UAH.

Non vale obiettare che i dati satellitari esistono solo dal 1979. Questi quarant'anni, infatti, dicono qualcosa di ragguardevole sull'andamento della temperatura globale. Qualcosa di molto differente da quanto sostiene l'IPCC.

Secondo i dati UAH, infatti (vedi qui), dal 2001-2002 al 2013 la temperatura globale è rimasta stazionaria. Vale a dire che la media della temperatura globale degli anni dal 2001 al 2013 inclusi è sostanzialmente identica a quella del 2001-2002 (precisamente: le è inferiore di 0,034 °C) e del 2013 (precisamente: le è inferiore di 0,014 °C; qui i dati). Il 2018 fa registrare un temperatura globale che si sta riallineando alla suddetta media 2001-2013: + 0,092 °C, contro + 0,254 °C del 2017. Inoltre, è evidente che il vistoso scostamento del triennio 2015-2017 dalla media 2001-2013 è da addebitarsi principalmente al fortissimo El Niño di fine 2015 (non certo alle emissioni antropiche di gas serra), cui ha fatto seguito un raffreddamento (prodotto dal fenomeno denominato La Niña) non così marcato, anzi decisamente più tenue sia di quello successivo a El Niño del 1997-98 sia di quello subentrato a El Niño del 2009-10 (vedi qui e qui).

C'è di più. Come ha fatto notare Ron Clutz, il dataset UAH mostra che sugli oceani la temperatura media dal 1995 al settembre 2018 è superiore di 0,13 °C rispetto alla temperatura media globale 1981-2010, e la temperatura sugli oceani nei primi nove mesi del 2018 è invece superiore a quest'ultima media di 0,155 °C. Quindi la temperatura dell'aria al di sopra degli oceani nel 2018 è stata finora superiore di solo 0,02 °C a quella media dal 1995: una differenza irrilevante. Insomma: sugli oceani da oltre vent'anni la temperatura complessiva è stazionaria (come mostra chiaramente il relativo grafico, nel quale la temperatura globale delle acque è indicata dalla linea blu), non c'è traccia di “riscaldamento globale”. Il dato è davvero notevole, perché – l'abbiamo già richiamato - gli oceani si estendono su oltre il 70% della superficie terrestre.

Riassumendo: nel XXI secolo nessuna traccia di riscaldamento globale al di sopra degli oceani e, globalmente, temperatura stabile per circa i primi quindici anni, e poi un riscaldamento 1) addebitabile a El Niño (e non alle emissioni di CO2 da parte dell'uomo), 2) al quale nel 2018 sta facendo seguito un sensibile riavvicinamento ai valori precedenti.

Dati (di prima qualità) alla mano, è pertanto lecito concludere, a dispetto dell'opposto avviso dell'IPCC e del suo recentissimo rapporto, che non è in atto nel XXI secolo alcun “riscaldamento globale” degno del nome. E tantomeno è in atto un riscaldamento globale antropogenico. Ossia: la concentrazione atmosferica di CO2 non sta affatto governando l'andamento delle temperature globali nel XXI secolo, come prova il fatto che dal 2001 a oggi tale concentrazione è cresciuta in modo costante e monotono (passando da 370 a 410 ppm circa: vedi qui), contrariamente alla temperatura globale terrestre, come si è documentato. (Alessandro Martinetti)