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Ora di dottrina / 122 – Il supplemento

Miracoli, perché non reggono i sofismi dei filosofi

Spinoza, Voltaire, Rousseau e Hume negano la possibilità dei miracoli sulla base di argomenti a priori. Ma le premesse, sbagliate, da cui partono non reggono a una critica sostanziale.

Catechismo 30_06_2024
Ritratto di François-Marie Arouet, alias Voltaire

Nell'ultimo supplemento di apologetica, abbiamo presentato alcune obiezioni dei filosofi maggiori alla possibilità del miracolo e alla sua funzione apologetica, ossia al suo valore di prova. Cerchiamo ora di capire perché, nonostante la loro apparente logicità, esse non reggono.

Partiamo dalla posizione di Baruch Spinoza la quale – la riassumiamo per comodità – esclude il miracolo a motivo della coincidenza metafisica tra Dio e Natura: nulla avviene al di fuori o al di sopra delle leggi della natura, perché nulla esiste al di fuori di essa. È chiaro che, posta la sua visione metafisica, sarà assolutamente coerente e necessario concludere l'impossibilità di un vero miracolo. Ma il problema è appunto l'impostazione metafisica, la quale parte da un errore strutturale, che cerchiamo di esprimere in modo comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Per Spinoza, noi conosciamo la sostanza; ma la sostanza, che per definizione è ciò che esiste in sé e non in altro, non può che essere unica ed “eterna”, altrimenti sarebbe causata da altro e dunque non sarebbe più sostanza. È da qui che proviene la sua idea fondamentale che la sostanza non può che essere unica e non può essere che divina. Tutto quello che invece noi chiamiamo sostanze individuali, ossia le singole realtà che percepiamo, non sono vere sostanze, ma solo modi dell'unica sostanza.

Una tale concezione annulla, come nulla fosse, la realtà della differenza sostanziale degli enti tra di loro, nonché della causalità libera, ossia della responsabilità umana. Perché anche l'uomo non sarebbe altro che un modo necessario già racchiuso nell'essenza dell'unica sostanza; e dunque egli in realtà non eserciterebbe alcuna azione libera e, più radicalmente, non si distinguerebbe realmente né dagli altri enti della realtà e nemmeno da ciascun altro singolo uomo. La filosofia di Spinoza è in fondo, come diceva Vico, una mostruosità, ma una mostruosità che parte da un passo falso: ossia quello di dedurre la realtà da un'essenza, senza preoccuparsi di rendere ragione della realtà stessa. Dunque, a Spinoza rispondiamo che la sua concezione del miracolo è malata, perché frutto di una metafisica malata. La spiegazione della realtà non può essere compiuta a priori a prescindere dalla realtà.

Voltaire, dal canto suo, sosteneva che l'idea di un Dio che si mettesse ad alterare l'ordine di natura, che Egli stesso ha stabilito, per “compiere miracoli”, sarebbe indegna del Dio sapientissimo. A Voltaire bisognerebbe chiedere se gli atti umani seguono le rigide regole della natura oppure se invece siano altro da queste leggi. L'atto con cui un uomo sposa una donna, con cui si sacrifica per la Patria, con cui realizza una basilica romanica hanno la stessa necessità della sintesi proteica che si verifica nel nostro organismo? Detto in altro modo: l'uomo è in grado di agire liberamente, ossia di porre atti che non corrispondono alla necessità delle leggi fisiche? Voltaire ha molti difetti, ma non quello di negare formalmente la libertà umana; e dunque, gli chiediamo perché mai Dio sarebbe da meno rispetto agli uomini e non potrebbe agire liberamente, in modo superiore alle leggi fisiche; perché mai Dio non potrebbe compiere qualcosa che oltrepassa queste leggi, per un bene più grande degli uomini. Con il miracolo, Dio infatti non si oppone alla natura da lui creata, ma la pone al servizio del bene più grande dell'uomo; la rende, per così dire, più “malleabile”, perché serva alla Sua gloria.

La prospettiva di Jean-Jacques Rousseau appare invece radicalmente contaminata da una grave alterazione del senso del cristianesimo. Nella prospettiva di una religione dispensatrice di precetti morali che favoriscano la convivenza, di certo non c'è bisogno dei miracoli, ma nemmeno di un Dio incarnato e di un Redentore. Prima e più che dare buoni insegnamenti civili, Gesù Cristo è venuto a redimere gli uomini dalla morte eterna, alla condizione imprescindibile che credessero in Lui, nella sua divinità. Una lettura attenta dei quattro Vangeli dimostra a sufficienza che il Signore abbia richiesto questa fede e che la ragione della sua crocifissione sia stata precisamente l'affermazione della sua comunione di natura con il Padre: «Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10, 33). Ed è proprio per confermare la propria divinità che il Signore Gesù rinvia alle sue opere prodigiose: «Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10, 37-38). Le opere indicano che Lui è nel Padre e il Padre in Lui.

Gli argomenti di Rousseau si infrangono contro la testimonianza evangelica, di fronte alla quale egli è costretto a ritenere, per partito preso, che sarebbe invenzione dei discepoli. Ma è appunto in funzione di un preconcetto arbitrario – ritenere la vera religione puramente spirituale – che egli decide dell'invenzione dei miracoli narrati nei Vangeli. La posizione di Rousseau nasce dunque da una propria necessità a priori – deve essere così –, che poi si declina in un’epurazione del testo evangelico da ciò che non corrisponde a tale esigenza a priori. I miracoli sarebbero dunque una contro-apologetica solo se si stabilisce a priori che la vera religione sarebbe quella puramente spirituale, che non intende contaminarsi con la realtà. Una negazione (arbitraria), appunto, del cristianesimo.

Più sottile la contestazione dei miracoli da parte di David Hume. Sarebbe la regolarità e costanza delle leggi della natura, che la nostra conoscenza esperisce, a chiederci di tenerci lontani dai miracoli, in quanto appunto contrari a tale esperienza. Esperienza che, insieme all'evidenza, è l’unica base della conoscenza. Di nuovo, ci troviamo di fronte a un problema di impostazione filosofica. Hume ha in sostanza posto delle premesse che creano delle conseguenze quasi tautologiche. Se noi decidiamo in partenza che nulla può accadere al di fuori delle leggi immutabili della natura, attestate dalla nostra esperienza, è chiaro che nulla accadrà al di fuori di queste leggi. L'attestazione di fatti che appaiono non conformi a queste leggi sono, per necessità di coerenza con il postulato indimostrato di Hume, semplicemente in-credibili a priori. Ma il problema è in questo a priori: perché mai nulla sarebbe conoscibile oltre l'esperienza? Meglio: perché mai l'esperienza non potrebbe essere compresa nella sua valenza metafisica, ma solo empirica? Perché il passo falso di Hume, che segnerà la famosa svolta kantiana, sta proprio qui: che la realtà non comunicherebbe altro che fasci di impressioni, mentre ogni idea si porrebbe come costruzione dell'intelletto senza alcun fondamento in re.

Prendiamo la critica alla sostanza, che costituisce il cuore del pensiero del filosofo scozzese. L'idea che esistano vere e proprie sostanze non avrebbe alcun fondamento nella realtà, perché sarebbe una costruzione della nostra mente. Ma questo ragionamento, basato su un dubbio non necessario, finisce semplicemente per passare a lato del reale, senza spiegare ciò che invece è esperienza universale, ossia che colori, forme, odori, etc. non attraversano uno “spazio caotico”, ma si danno come inerenti a realtà individue, che chiamiamo appunto sostanze. Noi non conosciamo una superficie bianca con tratti neri, una forma di parallelepipedo e un certo odore: noi percepiamo un libro, al quale queste caratteristiche ineriscono.

Il tentativo di escludere la possibilità del miracolo percorrendo la strada filosofica non regge ad una critica sostanziale; eppure ha creato un milieu culturale al quale molti teologi, come vedremo, non sono riusciti a sfuggire.



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