Messico, la Via Crucis ideologica contro i confini
Oltre 200 emigranti dall'America Latina bussano alle porte degli Usa. Storia che ispira una narrazione manichea: da una parte i bisognosi che chiedono ponti, dall'altragli egoisti che oppongono muri. Ma a ben vedere, più che di immigrazione si tratta di una manifestazione politica. I cui intenti sono tutt'altro che caritatevoli.
Non con i barconi, ma con le carovane. Così cercano di approdare agli Usa gli emigranti dall’America Centrale: a piedi, in vecchi scuolabus, a bordo di treni, sono in marcia da più di un mese e da due giorni bussano alla porta della frontiera americana. Gli uffici immigrazione della dogana scoppiano e Trump tuona contro il Congresso, che non ha ancora fatto passare una riforma dell’immigrazione.
Le carovane che attraversano il Messico non sono una novità. Sono una realtà consolidata fin dal 2008. Le carovane servono, prima di tutto, a proteggere gli emigranti dalla minaccia dei narcotrafficanti e in genere dalla malavita centro-americana. I rapimenti a fini di estorsione (o peggio) sono infatti all’ordine del giorno. Il viaggio in carovana fa da deterrente. Sono richiedenti asilo provenienti dai paesi più poveri e violenti dell’America Centrale, come l’Honduras, il Salvador e il Guatemala. Quest’ultima carovana, con più di mille persone, è costituita all’80% da honduregni in fuga dalla crisi politica del paese, scoppiata dopo le elezioni (contestate dall’opposizione e da osservatori internazionali) vinte dal presidente Juan Orlando Hernández. Fra coprifuoco e repressione, trenta i morti già sul terreno, molti hanno preferito la via di fuga, verso un paese sicuro. Se questa è l’origine, più che genuina dell’emigrazione dal Centro al Nord dell’America, la sua conclusione appare caotica e politicizzata al tempo stesso.
Il caos è creato dai numeri, meramente dai numeri. Nessuno, infatti, ha mai cercato di fermare i richiedenti asilo. Gli Usa, nella storia recente, si sono dimostrati generosi, molto più dell’Italia e della media dei paesi europei, stando alle percentuali. Fra tutti i richiedenti, nel 2016, il 43% ha ottenuto asilo politico. Nel caso dei latino americani, però, l’ha avuto solo il 23%. Gli altri sono stati considerati immigrati economici. La polizia di frontiera filtra piccoli gruppi alla volta per poter vagliare la regolarità di una richiesta di asilo. Cosa è successo, però, in questi giorni? Che i richiedenti asilo sono arrivati in un gruppo di 200, marciando da Tijuana a San Isidro, al confine con la California sulla costa del Pacifico. Cinquanta sono entrati subito nel centro di immigrazione, gli altri sono rimasti a ridosso della struttura, senza tornare nel più vicino centro di accoglienza, per solidarietà con i loro compagni di marcia. L’intento è quello di mantenere unito il gruppo. Si tratta, dunque, di una manifestazione politica.
Mentre era in viaggio lungo il Messico, la carovana è stata duramente attaccata da una raffica di tweet del presidente Donald Trump, che la vede come una minaccia esplicita alla frontiera americana. Già dalla prima settimana di aprile, l’amministrazione Usa ha ordinato il dispiegamento di 4000 Guardie Nazionali per rafforzare la polizia di frontiera. L’episodio ha dato a Trump il destro per tornare al suo cavallo di battaglia elettorale: riforma dell’immigrazione e muro con il Messico. La lunga marcia si è politicizzata anche nell’altro senso: affollando a centinaia gli ingressi negli Usa, sempre seguiti, in presa diretta, dai media di tutto il mondo, passando alla chetichella il muro di confine in modo illegale e facendosi arrestare. Fra tweet, dichiarazioni stampa, immagini strappalacrime di donne e bambini a ridosso del muro americano, e matrimoni celebrati al di qua e al di là della barriera, manifestazione di giubilo degli attivisti messicani e americani e contestazione alla rigidità della burocrazia e della polizia di frontiera, è stato tutto un immenso spot anti-Trump.
Come in tutti i casi precedenti, la carovana è tutt’altro che spontanea, ma organizzata da Ong. Stavolta dall’associazione Pueblo sin Fronteras (Popolo senza Frontiere). Usando un chiaro simbolismo cristiano, il PsF hanno fatto partire la carovana nella Settimana Santa, dal confine fra Messico e Honduras. La spedizione è stata battezzata Via Crucis dei Migranti. Anche negli intenti degli organizzatori, nello stesso motto del PsF si trova una citazione di Papa Francesco: “Per costruire ponti di solidarietà fra i popoli e abbattere i muri dei confini imposti dall’avidità”. La Homeland Security americana (equivalente del Ministero dell’Interno italiano) ha emesso un comunicato in cui si invita la carovana degli emigranti a fermarsi in Messico, cioè nel primo paese sicuro a cui chiedere asilo politico. Il Messico ha tanti problemi, ma non è comunque un paese in guerra, né c’è una rivoluzione. Nulla da cui fuggire per chiedere asilo politico, insomma. Ma la Via Crucis ha, quale ultima stazione, gli Stati Uniti. Con il loro muro da abbattere. E qui l’intento ideologico, polemico, politico, appare abbastanza evidente.
Il principio in gioco è l’esistenza stessa dei confini. Il “Popolo senza Frontiere” li vorrebbe abolire. Trump ha vinto le elezioni anche e soprattutto perché li vuole rafforzare. Il presidente statunitense ritiene che senza confine, non vi possa essere neppure più un governo della legge: in una nazione democratica, l’autodeterminazione è fondamentale ed è un principio che presuppone anche chi possa far parte della nazione e chi no. Quest’ultimo principio viene spesso messo in contrasto con il cattolicesimo, dando per scontato che la Chiesa sia sempre e necessariamente favorevole all’accoglienza illimitata. Ma è una lettura quanto meno superficiale della Dottrina. La carità è un dovere morale. Si deve dunque prestare soccorso a chi è nel bisogno, dopo un lungo viaggio nel mare, così come attraverso le terre centro-americane. Ma l’inclusione dei nuovi arrivati nella società di accoglienza deve avvenire nel rispetto del bene comune. E di questo bene comune fanno parte non solo gli equilibri sociali, lavorativi ed economici ma anche l’identità culturale della nazione.
I sostenitori dell’abbattimento delle frontiere, come i Pueblo sin Fronteras, intendono l’immigrazione negli Usa come una forma di risarcimento. Non è un caso che abbiamo ricevuto, durante la marcia, solidarietà politica dai palestinesi di Gaza che, sotto la guida di Hamas, protestavano per la “Giornata della Terra”, in cui rivendicano il possesso delle terre che ora fanno parte di Israele. E più in generale per un ritorno islamico alle terre che furono islamiche, dunque incedibili. Una delle organizzazioni palestinesi della Giornata della Terra, la Campagna Stop the Wall, scriveva il 10 aprile ai Psf in Messico: “Noi salutiamo la vostra marcia di oltre 1500 migranti per sfidare le politiche statunitensi razziste ed esclusiviste, che impediscono ai popoli di passare le frontiere, privandoli dei diritti fondamentali della libertà di movimento e della libertà di chiedere asilo. Noi riconosciamo che molti di voi sono stati costretti a lasciare la propria casa per le politiche dei regimi repressivi sostenuti dagli Stati Uniti e, aggiungiamo noi, da Israele, lo Stato che, sin dagli anni Settanta, ha appoggiato, militarmente e politicamente, ogni golpe, ogni dittatura e ogni regime oppressore del popolo in America Latina”. Questa è ideologia pura. Perché non vi è traccia di un appoggio israeliano alle dittature latino-americane, così come gli attuali governi non sono più da un pezzo, almeno dalla fine della guerra fredda, condizionati dalla politica estera americana. Sono semmai paesi poveri e politicamente in crisi, quasi sempre di matrice socialista, a cui gli Usa destinano miliardi di aiuti (per uno sviluppo che non arriva). Ma è la stessa identica retorica che viene usata contro i paesi europei che si rifiutano di accogliere in modo illiminato gli emigranti dall’Africa: in questo caso sono accusati di colonialismo e neo-colonialismo. L’immigrazione, vissuta come dovere risarcitorio nei confronti dei paesi in via di sviluppo, ha molto poco a che vedere con il cristianesimo. E molto più con il marxismo, nelle sue numerose varianti terzomondiste.