Malagiustizia, i magistrati che sbagliano non pagano mai
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Nel nostro Paese la tripartizione dei poteri è sbilanciata a favore delle toghe che godono di piena impunità. Anche quando a farne le spese sono migliaia di innocenti arrestati e poi assolti.
Che il rapporto tra i poteri sia fortemente sbilanciato in favore della magistratura non è un mistero. Montesquieu inorridirebbe se osservasse le dinamiche italiane e le continue prevaricazioni che il potere giudiziario compie nei confronti delle persone e delle organizzazioni sociali e politiche. La tripartizione dei poteri, che dovrebbe assicurare alla democrazia un equilibrio funzionale tra diritti e doveri, è stata da tempo stravolta nel nostro Paese, perché, fin dai tempi di Tangentopoli, la forza soverchiante delle toghe ha prodotto una vera e propria sudditanza psicologica e una imbarazzante sottomissione del potere politico, espressione della volontà popolare, al potere giudiziario, ispirato a criteri di selezione e funzionamento non sempre meritocratici e tutt’altro che trasparenti.
Lo sbilanciamento appare ancor più evidente quando si consultano i dati sui frequenti errori giudiziari, che rimangono sempre impuniti perché nessuna toga che sbaglia paga e i magistrati che fanno carriera e ricevono promozioni e riconoscimenti sono quelli che si intestano inchieste spinose e scottanti che guadagnano i riflettori mediatici ma poi si traducono in nulla.
L’abuso della carcerazione preventiva trova terreno fertile proprio nella pressochè totale impunità dei giudici. Trattenere in galera o agli arresti domiciliari un indagato, costringendolo a dimettersi dai suoi incarichi istituzionali (come nel caso dell’ormai ex governatore della Liguria, Giovanni Toti), rappresenta una forzatura delle regole ma chi la commette non rischia nulla, come documentano in maniera impietosa alcune statistiche ufficiali.
Negli ultimi cinque anni sono state sanzionate dallo Stato 4.368 persone arrestate ingiustamente e poi assolte. Il risarcimento complessivo a carico dello Stato ammonta a 193.543 euro. La legge prevede che il magistrato colpevole di aver privato un cittadino della libertà personale senza che ce ne fossero ragioni venga sottoposto a procedimento disciplinare. Dal 2017 al 2023 sono state avviate 87 azioni disciplinari con esiti davvero disarmanti: 44 non doversi procedere, 27 assoluzioni, 8 censure, un trasferimento, sette ancora in corso.
Una piaga profondamente antidemocratica, che si ripercuote anche sul sovraffollamento delle carceri, visto che la carcerazione preventiva incide per un quarto sul numero delle persone in cella: 15.000 su 60.000. In altri termini, se un magistrato sa che non rischia nulla, sarà portato ad assecondare senza particolari remore le richieste di carcerazione preventiva spesso avanzate dai pubblici ministeri. Peraltro questo meccanismo malato produce notorietà e visibilità mediatica ai protagonisti, che si ergono a salvatori della patria e a paladini della legge. Poco importa se, a distanza di anni, le accuse nei confronti dei soggetti a custodia cautelare si sciolgono come neve al sole. Nessun giornale ne dà conto e la gente continua a credere che quel magistrato abbia agito nel rispetto della legge.
Ma l’emergenza magistratura in Italia si nutre anche di altri privilegi dei quali godono le toghe. Dovrebbero rifuggire da ogni compromesso che possa far dubitare della loro terzietà, cioè che possa offuscare la percezione della loro indipendenza e neutralità da parte dell’opinione pubblica e invece spessissimo arrotondano i loro guadagni con incarichi dei quali in pochi parlano.
Nei giorni scorsi sul Giornale si riferiva di un sottobosco di poltrone distribuite a giudici in società partecipate o in imprese private. In particolare quelli del Tar e del Consiglio di Stato, quindi i giudici amministrativi, beneficiano di prebende soprattutto nei collegi consultivi tecnici previsti dal Codice degli appalti. Ci sono poi le toghe distaccate a Palazzo Chigi e che per due giorni a settimana incassano altri 30.000 euro all’anno. Senza dimenticare gli incarichi doppi e tripli in enti di ricerca o università e perfino al Tribunale dell’automobile.
Tutto questo stride in maniera palese con le costanti rivendicazioni dei giudici nei confronti della politica. Si sentono minacciati nella loro indipendenza ma fanno di tutto per rinunciarvi, cedendo alle sirene dell’arricchimento personale, della notorietà e dello strapotere, anche in funzione della creazione di equilibri politici alternativi.
Si è spesso proposta l’elezione diretta dei magistrati sul modello americano, affinchè essi si sentano più legati al sentimento popolare e ne possano essere fedeli interpreti, senza deragliare in termini ideologici. Oggi una minoranza di giudici politicizzati fa il bello e il cattivo tempo, mentre se fosse il popolo ad eleggerli dovrebbero rispondere ad esso e non potrebbero orientare in maniera arbitraria la loro azione. Non è detto che funzioni in Italia, ma certo è che la magistratocrazia (espressione spesso usata da Silvio Berlusconi nelle sue frequenti battaglie per una giustizia più giusta) rappresenta un freno innegabile alla crescita e alla maturazione democratica del nostro Paese.
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