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DAVOS

L'Ue di fronte a Trump è spiazzata e senza bussola

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L'Unione Europea risponde alla sfida dell'America di Trump replicando tutti i suoi peggiori errori: più centralismo, più regolamentazione, più censura sui social. Un rifiuto di guardare in faccia alla realtà che affonda le sue radici in un'idea di Europa ormai anacronistica.

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Attualità 25_01_2025
Trump, il discorso a Davos (La Presse)

Dal giorno dell'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca le classi dirigenti dell'Unione europea, e gran parte dei suoi opinion leaders, sembrano ancora sotto choc: non hanno assorbito il colpo, né tanto meno "elaborato il lutto" per l'impetuoso vento di novità che sta soffiando da oltreoceano.

Le repliche dei vertici delle istituzioni dell'Ue alle principali iniziative promosse da Trump dal primo giorno del mandato sono, da questo punto di vista, emblematiche.

Il nuovo presidente manda all'aria tutto il castello di carte del green deal facendo uscire gli Stati Uniti dal trattato di Parigi sulle emissioni, incentivando la ricerca dei combustibili fossili e cancellando i sussidi alle auto elettriche ("potrete comprare l'automobile che preferite")? La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen replica che l'Unione europea tirerà dritto per la strada fissata del  "net zero", e addirittura, alla sessione del Wef a Davos, lancia la proposta di un forum internazionale sulla transizione energetica. E la vicepresidente Teresa Ribera, "talebana" dell'ideologia climatista, conferma, sempre in quella sede, la scadenza del 2035 per il divieto di vendita di auto a combustione fossile, e annuncia addirittura nuovi piani coordinati di incentivi e sussidi europei alle auto elettriche.

Trump decreta l'illegittimità di ogni censura sui media? La commissaria a "sovranità  tecnologica, sicurezza e democrazia" (già la denominazione fa sorridere) Henna Virkkunen risponde, in piena continuità con il suo predecessore Thierry Breton, che l'Unione non soltanto non ha alcuna intenzione di abbandonare la regolamentazione restrittiva sull'informazione e i social sancita con il Digital Servic Act, ma al contrario sta intensificando gli sforzi per mettere sotto controllo X – che ha rotto il muro della censura a livello globale – e quanti, come Facebook, vogliano ora seguire le sue orme. Sempre, per carità, per "proteggere" la democrazia.

L'impressione che suscitano queste dichiarazioni è quella dell'ostinazione capricciosa di un ragazzino che quando sta perdendo la partita si porta via il pallone e non vuole più giocare. Con effetti tra il comico e il patetico.

Si tratta, in tutta evidenza, di un'ostinata, continuata negazione della realtà effettuale, quando quest'ultima contraddice i dettami ideologici che da tempo quella classe dirigente cerca di imporre ai cittadini dell'Unione. Una negazione che configura, se non verrà riveduta in tempi stretti, una situazione insostenibile per il vecchio continente nel nuovo contesto mondiale. E che, peggio ancora, denota una incapacità ormai strutturale anche di comprendere i reali rapporti di forza in gioco nella competizione economica e politica internazionale.

Lo si percepisce chiaramente dalla demonizzazione ormai dilagante che da molti pulpiti politici, mediatici e intellettuali europei viene proposta di Elon Musk, dipinto ridicolmente come un neo-nazista e/o il capofila di una abominevole "tecnodestra" da combattere in ogni modo. E, per converso, dalla impressionante mancanza, in questi giorni, di adeguate riflessioni sull'importanza del fatto che Trump – a differenza che nel 2017 – oggi vede sostanzialmente allineata al suo fianco tutta la grande aristocrazia big tech in nome di un progetto di crescita nazionale e di "balzo in avanti" tecnologico ed economico. Un quadro che evidenzia le differenze abissali tra le risorse di know how, capitali e innovazione oggi a disposizione degli Stati Uniti e la soffocante rete di dirigismo e iper-regolamentazione che trascina l'Ue verso il fondo; bene esemplificata dalla differenza tra lo stato avanzatissimo del programma spaziale per le comunicazioni portato avanti da Musk (più di 6000 satelliti già in orbita) e quello europeo, tecnologicamente arretrato e ancora allo stadio preparatorio.

Ma il punto fondamentale sta forse proprio qui: nell'opera di auto-demolizione condotta per decenni, con una determinazione e una coerenza degne davvero di miglior causa, dall'Ue. Le istituzioni comunitarie, da quando i loro  legami sono stati intensificati con il trattato di Maastricht ma in una logica tutta verticistica e burocratica, non hanno fatto praticamente altro che scavare la fossa – economicamente e politicamente - ai loro paesi, per poi, davanti all'evidenza della sepoltura, dipingere quel loculo come l'appartamento più comodo del mondo, esempio per tutti gli altri. Nel contesto della crescente globalizzazione, l'architettura dell'Unione si è concretizzata ben presto come poco più di un progetto di gestione "dolce" dell'invecchiamento e della decadenza di un continente opulento, ma che avrebbe richiesto molti sforzi di idee, visione, investimenti per inserirsi in una dialettica mondiale in cui non restava più traccia della sua antica egemonia. Trainata dalla "locomotiva" franco-tedesca, soprattutto nell'epoca di Angela Merkel, l'Europa comunitaria ha cercato un ancoraggio in una stabilizzazione "eurasiatica": un universo contrassegnato da alta qualità della vita, welfare e sussidi, supportata fondamentalmente dall'energia a basso costo importata dalla Russia, dalla manifattura cinese e dalla manodopera a basso costo assicurata da un'immigrazione indiscriminata.

Il primo mandato di Trump aveva cominciato a contrastare questa tendenza, con la guerra dei dazi e l'opposizione al progetto egemonico di "Nuova via della seta" promosso da Xi Jinping. Il ritorno dei Dem alla Casa Bianca con Biden sembrava avere dato ad essa nuova linfa. Ma la guerra russo-ucraina, la crisi generata dalle restrizioni pandemiche e poi  dalla corsa alle materie prime, e ora il ritorno agguerrito di The Donald,  hanno completamente distrutto il senile "eden" del vecchio continente, aggiungendosi agli inevitabili, catastrofici risultati del green deal. L'industria europea – quella dell'automotive ma non solo - è un panorama di macerie. La transizione ecologica ha giovato solo a Pechino. Il vecchio continente non è leader in alcun settore economico ad alto impatto tecnologico. L'energia a basso costo è scomparsa da quando l'Ue è stata costretta ad allinearsi senza riserve alla politica bellicista di Biden, andando al  muro contro muro con Putin.

Ora l'Europa è sempre più chiaramente il fragile vaso di coccio tra i vasi di ferro nel nuovo sistema multipolare di potenza mondiale. Le sue sorti, per mancanza di risorse autonome, sono inevitabilmente legate a quelle del nuovo corso economico e politico americano sotto l'odiato Trump. Ma ancora i "mandarini" dell'Ue e i loro accoliti cercano di raccontare, e raccontarsi, una realtà immmaginaria in cui il continente può permettersi di fare la voce grossa con Washington, e nel mondo.

Peccato per loro che siano i loro stessi cittadini, nonostante la propaganda e la censura, a non credere più a quelle fantasie. Come dimostrano con eloquenza i risultati elettorali che ormai ovunque puniscono regolarmente i partiti  appartenenti a quell'establishment, e premiano le forze sovraniste.