Luca Bianco, il trans che (per primo) non si accettava
Ha fatto gridare alla transfobia la notizia del suicidio di Luca Bianco, uomo che si sentiva donna e si faceva chiamare “Cloe”. In realtà, è il transessualismo la prima e vera fonte di disagio, perché sentirsi qualcuno di diverso nasce da una profonda crisi interiore. Bianco stesso lo testimoniava nel suo blog. E le ricerche e gli ex-trans lo confermano.
Un camper carbonizzato e all’interno un cadavere anch’esso carbonizzato. La vittima probabilmente è Luca Bianco, professore veneto di 57 anni.
Nel dicembre 2015, Bianco entrò in classe vestito con minigonna, tacchi, smalto alle unghie e caschetto biondo, deciso a fare outing e a rivelare a tutti la sua decisione di essere “donna”. Si presentò allora come Cloe. Una ragazza uscì dalla classe in pianto. La vicepreside dell’Istituto Mattei di San Donà di Piave ricordò al professore il codice di abbigliamento a cui tutti i docenti dovevano attenersi. Intervenne anche l’ispettore regionale della pubblica istruzione. Scattarono tre giorni di sospensione e poi l’assegnazione a mansioni che non prevedevano il contatto con i ragazzi. Poi tornò di nuovo di ruolo a Mestre.
Il 10 giugno scorso, Bianco ha pubblicato un post sul suo blog annunciando il suicidio: «Subito dopo la pubblicazione di questo comunicato porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte. In quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto. Addio. Se mai qualcuna o qualcuno leggerà questo scritto».
Naturalmente la lettura obbligata di questa dolorosa vicenda era già preconfezionata: Luca Bianco si è suicidato perché si sentiva discriminato. Un’altra vittima della transfobia. Lettura avvalorata anche dagli scritti del professore, come il seguente: «Essere una persona fuori dai canoni diffusi, dai modi comuni del vivere, ossia fuori da quello ch’è ritenuto giusto in una data società in uno specifico periodo temporale, vuol dire incarnare ciò che non si deve essere, con le fin troppo ovvie conseguenze di rifiuto date dalle scelte ritenute, dalle altrui persone, scandalose, inaccettabili, non condivisibili».
Pare che Bianco non fosse oggetto di critiche o condotte gravemente e ingiustamente discriminatorie: minacce, insulti, vessazioni, lesioni etc. Altrimenti ne avrebbe scritto e i media avrebbero rilanciato la notizia in occasione della sua morte. Sicuramente percepiva l’imbarazzo delle persone attorno a lui e la comprensibile critica alla sua scelta da parte di alcuni come ingiuste discriminazioni.
Non sappiamo se il motivo esclusivo o concorrente alla sua morte sia da rintracciarsi in questa erronea percezione da parte del professore del sentito sociale nei suoi confronti, ma quello che è certo sta nel fatto che Bianco nutriva un forte disagio interiore che nulla aveva a che fare con il giudizio degli altri. La prova evidente è stata la frattura esistente nella sua mente tra il percepito e la realtà: si vedeva donna, ma era uomo. E laddove c’è scissione, c’è crisi. La scelta del transessualismo o del travestitismo è un sintomo, una spia che rimanda ad un malessere interiore.
Questo malessere interiore, che nulla aveva a che fare con il giudizio degli altri, ben traspare dalle pagine del suo blog: «Il possibile d’una donna brutta è talmente stringente da far mancare il fiato, da togliere quasi tutta la vitalità. Si tratta d’esistere sempre sommessamente, nella penombra. In punta di piedi, sempre ai bordi della periferia sociale, dov’è difficile guardare in faccia la realtà. Io sono brutta, decisamente brutta, sono una donna transgender. Sono un’offesa al mio genere, un’offesa al genere femminile. Non faccio neppure pietà, neppure questo». Bianco non si accettava come persona e si autocommiserava. Credeva che il problema fosse la sua mascolinità, il suo sesso maschile. Allora mutò pelle, ma nonostante questo le cose non cambiarono in meglio. Anche come donna si vedeva come uno sgorbio. Ecco allora che forse, come capita spesso, cercò un capro espiatorio: gli altri. Prima si dà la colpa ad un corpo ritenuto sbagliato, poi agli altri, che sbagliano.
La triste vicenda di Bianco è molto simile a quella di moltissime altre persone transessuali. Nel 2017 la Stonewall, un’istituzione pro-gay, e l’Università di Cambridge hanno condotto una ricerca su 400 giovani studenti transessuali la quale ha messo in evidenza, oltre a comportamenti autodistruttivi, che il soggetto campione era affetto in massima parte da depressione, ansia ed era incline al suicidio (40% contro il 25% delle persone omosessuali). Nella ricerca si addebitavano queste condotte al clima transfobico. L’ex transessuale Walt Heyer, autore del libro 50 anni di cambiamenti sessuali, disturbi mentali e troppi suicidi, ha criticato questa spiegazione e ha ricordato che «le persone che sono emotivamente, socialmente e psicologicamente a posto non tentano di suicidarsi, ma il 40% delle persone transgender tenta il suicidio. È perché hanno gravi disordini mentali. Il 62,7% degli individui che si identificano come transgender soffrono di disturbi psichiatrici”.
Simili risultati si possono rinvenire anche in altre ricerche. Lo statunitense National Center for Transgender Equality - altra istituzione pro gender - nel 2015 aveva evidenziato che il 40% dei transessuali aveva tentato il suicidio e sempre un altro 40% dichiarava di soffrire di disturbi mentali. Tornando alla vicenda di Bianco, anche la decisione di vivere in un camper appare sintomatica di una condizione di forte disagio sperimentata dal professore.
Un’ultima nota. Quando Bianco fu sospeso dalla didattica ne nacque una vertenza presso il giudice del lavoro, il quale pur «senza voler criticare una legittima scelta identitaria sognata da Bianco dall’età di cinque anni», decise che il provvedimento della scuola a carico del docente «era giusto» perché non fu «responsabile e corretto» da parte di Bianco sbattere in faccia ai ragazzi la sua scelta senza prima averli adeguatamente preparati. Dunque il problema, ovviamente, per il giudice, non stava nel transessualismo o nel travestitismo, né - ancora ovviamente - sorse il minimo dubbio che simili scelte adombrassero ferite interiori profondissime, nulla di tutto questo; il problema era ed è preparare le scolaresche ad accettare il “cambio” di sesso. La decisione del tribunale quindi ricalcava lo spirito dell’educazione sessuale più diffuso ai giorni nostri, in cui l’alunno deve imparare che esistono diversi orientamenti sessuali e diversi “generi”. Questo nell’illusione che, se tutti accetteranno tale dottrina arcobaleno, i gesti estremi come quello del povero professor Bianco non accadranno più.