Lottizzazione Rai, la sterile protesta di Giuseppe Conte
Il nuovo amministratore delegato della Rai, Fuortes, aveva promesso di liberare la Tv pubblica dalle logiche partitiche. Invece, nei giorni scorsi, abbiamo assistito all'ennesima lottizzazione. I grandi esclusi, i pentastellati, per bocca di Conte boicotteranno la Rai eliminando le loro presenze televisive. Ma Di Maio è d'accordo?
Il canovaccio è sempre lo stesso. Lottizzazione spacciata per pluralismo e chi rimane escluso dalla spartizione invoca autonomia dalla politica, dimenticando che nella tv pubblica non c’è mai stata. La presa di posizione di Giuseppe Conte farebbe sorridere se non ci fosse da piangere. L’ex premier, scontento delle nomine approvate ieri dal Cda della Rai, ha annunciato una sorta di Aventino televisivo, intimando ai parlamentari e ai rappresentanti del Movimento Cinque Stelle di non partecipare più a trasmissioni della tv pubblica. Peccato che per oltre un anno e mezzo abbia avuto le reti Rai al suo servizio per i monologhi sul Covid e si sia perfino preso la licenza di boicottare talvolta i canali televisivi pubblici per fare dirette Facebook, in una logica propagandistica di diversificazione delle azioni di comunicazione attraverso l’utilizzo di una pluralità di media.
Tra le nomine più importanti c’è quella di Monica Maggioni, ex presidente della Rai, al TG1: è la prima volta che una donna dirige la testata. Gennaro Sangiuliano, considerato vicino alla Lega, resta direttore del TG2, mentre il TG3 sarà diretto da Simona Sala, gradita sia al PD sia ai 5S. RaiSport sarà diretta da Alessandra De Stefano e il giornale radio da Andrea Vianello, mentre a dirigere Rainews sarà Paolo Petrecca, amico personale di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, che aveva invocato maggiore spazio in Rai visto che i sondaggi la danno in ascesa.
Conte ha sperato fino all’ultimo nella riconferma di Giuseppe Carboni alla guida del Tg1. Se fosse successo, se ne sarebbe guardato bene dal criticare le logiche spartitorie. E invece il suo siluramento per far posto alla Maggioni, voluta dal Pd e da Palazzo Chigi, lo ha mandato su tutte le furie. «Fuortes (l’a.d. Rai, n.d.r.) non libera la Rai dalla politica ma ha scelto di esautorare una forza politica come il M5S», ha detto il leader del Movimento, aggiungendo che «il M5S non farà più sentire la sua voce sui canali del servizio pubblico». Significa, di fatto, che gli esponenti del partito non parteciperanno più ai talk show e alle altre trasmissioni della Rai. Ma è assai probabile che l’”avvocato del popolo” abbia fatto i conti senza l’oste. L’oste si chiama Luigi Di Maio, controlla più della metà del Movimento e non ci pensa neppure lontanamente a rinunciare alla visibilità televisiva. Non solo perché è ministro degli Esteri ma perché aspira a sfilare a Conte anche l’altra metà del Movimento. E poi si tratta di una forza politica già in caduta libera nei sondaggi e che, senza l’amplificatore delle reti Rai, ben difficilmente riuscirebbe a frenare l’emorragia di consensi che prosegue incessante da almeno due anni.
Quindi il capriccio di Conte è destinato a durare poco, ma offre comunque lo spunto per alcune considerazioni sulla fase politica che stiamo vivendo e sulla perenne agonia del servizio pubblico radiotelevisivo. Ieri in cda Rai, durante le votazioni delle nomine, il consigliere in quota 5 Stelle, Alessandro Di Majo, ha votato contro, ma anche il consigliere indicato dai dipendenti, Riccardo Laganà, si è astenuto o ha votato contro in alcune votazioni che non ha condiviso. Peraltro Usigrai, il potente sindacato dei giornalisti della tv pubblica, ha diramato un comunicato per criticare Fuortes. L’a.d. aveva promesso di tenere fuori la politica dalle scelte aziendali e invece «le nomine appaiono rispondere a logiche spartitorie», si legge in quel comunicato.
Nessuna stagione politica è stata immune dalla lottizzazione degli spazi di informazione pubblica e le poltrone dei responsabili delle reti e dei tg sono sempre state assegnate con il Manuale Cencelli, applicato sulla base del consenso elettorale e del peso politico dei singoli partiti. Questa fase storica però presenta un unicum: è la prima volta che il partito di maggioranza relativa non si sente “tutelato” dal direttore del Tg1, che storicamente è espressione proprio del partito numericamente più forte. Il Movimento 5 Stelle non lo è più da tempo nel Paese (i sondaggi lo collocano al quarto posto, dopo Pd, Fratelli d’Italia e Lega), ma lo è a livello di rappresentanze parlamentari, sulla base dei risultati delle elezioni politiche del marzo 2018. Prevedibile, quindi, il risentimento di Conte, mentre Luigi Di Maio sotto sotto è felice perché come ministro degli Esteri può comunque beneficiare di una grande vetrina televisiva che invece l’ex premier non ha, visto che non ricopre alcun incarico istituzionale.
Fuortes si era presentato con un impegno ben preciso: liberare l’informazione pubblica dalle pesanti ipoteche dei partiti. Le nomine approvate ieri dimostrano l’esatto contrario. E non c’è da stupirsi, perché le normative che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento della tv pubblica sono il prodotto di scelte di convenienza delle forze politiche di governo e di opposizione, che si sentono tutelate dalla lottizzazione ferrea dei posti di potere. E’ l’unico metodo che consente a tutti di avere qualcosa e permette alla politica di dettare i tempi dell’informazione pubblica senza correre il rischio di essere subalterna ad altri poteri. Ma a perdere sono i cittadini, che pagano un canone per avere un’informazione equilibrata e di pubblica utilità e in reaità ne ricevono una faziosa e inaffidabile.
Questa logica perversa, già devastante prima della rivoluzione digitale, rischia di tradursi nella fine del concetto stesso di servizio pubblico, perché web e social stanno facendo sempre più concorrenza alla televisione, ferma a schemi gestionali non meritocratici e inchiodata a un modello di business sempre più in affanno.