Long Covid, il rischio è la politicizzazione della medicina
Il long Covid è entrato nel lessico comune attorno alla metà del 2021: alcuni dei sintomi della Sars Cov-2 si prolungano oltre 3 mesi dopo che il paziente è guarito. Per la vulgata mediatica colpiva soprattutto i giovani. Che così erano spinti a vaccinarsi, mentre restavano in vigore le restrizioni. Ora emergono parecchi dubbi sull'allarmismo.
Il long Covid è entrato nel lessico comune attorno alla metà del 2021. È stato riconosciuto ufficialmente in Italia come malattia il 1 luglio di quell’anno. Per long Covid si intende quella condizione clinica in cui alcuni dei sintomi della Sars Cov-2 si prolungano oltre le quattro settimane dopo che il paziente è guarito e risulta negativo. La campagna per la sensibilizzazione al long Covid ha spinto a vaccinare giovani e bambini, le fasce meno a rischio di morte. E a prolungare restrizioni anche per il resto della popolazione, come l’obbligo di mascherina all’aperto. Alcuni studi, a distanza, dimostrano però che si sia un po’ esagerato il rischio di long Covid, sia nel numero di chi ne soffre, sia nei suoi effetti.
Fra i sintomi principali del long Covid troviamo sempre una persistente stanchezza e uno stato di prostrazione, dolori diffusi muscolari e articolari, periodi di febbre. In alcuni casi, le infezioni da Sars Cov-2 possono causare danni ai reni, allo stomaco, all’intestino, alla cute. Danni che possono comportare sintomi anche peggiori, come difficoltà a respirare correttamente, tosse persistente, dolore al petto, aritmie e problemi di pressione. Oppure al cervello: problemi alla memoria e cefalee molto forti. Sono condizioni che portano ad un peggioramento complessivo della qualità della vita, dunque anche a problemi psicologici di chi ne soffre.
La stampa italiana, nel periodo in cui il long Covid era stato appena riconosciuto ufficialmente, puntava soprattutto a storie di giovani (meno a rischio di finire ricoverati o in terapia intensiva) ammalati di long Covid. L’enfasi era su un aspetto in particolare: anche chi contrae la malattia in modo lieve o asintomatico, può soffrire successivamente di long Covid. Ad esempio viene riportato, il 2 luglio 2021, su Focus, che: «Secondo uno studio pubblicato su Nature Medicine e condotto a Bergen, in Norvegia, più della metà dei giovani adulti fino ai 30 anni di età reduci dalla malattia mostra sintomi di long Covid a sei mesi dalla fase acuta». Il 31 agosto dello stesso anno, questo è il catenaccio di un articolo su Sanità Informazione: «Stanchezza, dolori, depressione, difficoltà a camminare, perdita di gusto e olfatto: sono alcuni dei sintomi più comuni del long Covid, raccontati da giovani dai 13 anni in su». Il messaggio, reiterato dalla stampa più o meno scientifica e ripetuto dai telegiornali, si è immediatamente tradotto in una campagna pratica: vaccinare tutti anche i giovani. E mantenere le restrizioni per tutti.
A più di un anno di distanza, i Cdc americani (Center for Disease Control and Prevention) pubblica ancora percentuali allarmanti: il 20% degli infetti può soffrire anche di long Covid. Ma c’è chi inizia a mettere in dubbio queste cifre e le conclusioni a cui portano.
Sul Wall Street Journal, ad esempio, è intervenuto il professor Marty Makary docente alla Johns Hopkins University School of Medicine, i cui studi stanno ridimensionando molto l’entità della minaccia. Makary premette, prima di tutto: «Il long Covid è reale. Ho pazienti affidabili che descrivono sintomi persistenti dopo l'infezione da Covid». Mentre negli Usa si parla di sintomi nel 20% degli infetti, «uno studio britannico ha rilevato che solo il 3% dei pazienti affetti da Covid presenta sintomi residui che durano 12 settimane. Cosa spiega questa disparità? Spesso è normale avvertire una leggera stanchezza o debolezza per settimane dopo essere stati malati, essere inattivi e non mangiare bene. Chiamare questi casi di long Covid è una medicalizzazione della vita ordinaria».
Altri studi citati da Makary pongono il long Covid in prospettiva, confrontandolo con gli effetti a breve termine di altre malattie respiratorie: «Il Journal of the American Medical Association ha esaminato uno spettro di indicatori di benessere in 1.000 persone guarite da Covid sintomatico o da un'altra infezione respiratoria. Ha rilevato che il 40% dei pazienti positivi al Covid “riferiva un persistente scarso benessere fisico, mentale o sociale al follow-up di 3 mesi”. Per i pazienti negativi al Covid che hanno avuto altre infezioni dell'apparato respiratorio superiore, la percentuale è stata del 54%. I pazienti Covid hanno ottenuto risultati migliori rispetto a quelli che non hanno avuto il Covid».
Per quanto riguarda i giovani e giovanissimi, invece: «Lancet Regional Health ha studiato il long Covid in 5.086 minorenni tra gli 11 e i 17 anni e ha scoperto che i sintomi presenti durante l'infezione diminuivano rapidamente nel tempo. I ricercatori hanno riscontrato che tra i giovani positivi e negativi al test Covid “i modelli di prevalenza di scarso benessere, affaticamento e long Covid” - definito dai suoi sintomi senza la necessità di una diagnosi passata della malattia – “erano ampiamente simili”».
Makary denuncia esplicitamente la “politicizzazione della medicina”: «I funzionari della sanità pubblica hanno esagerato in modo massiccio il pericolo legato al long Covid per spaventare gli americani a basso rischio, mentre il nostro governo dà più di 1 miliardo di dollari al complesso medico-industriale per la ricerca sul long Covid». Risorse che non sono state destinate ad altre ricerche altrettanto importanti: «L'assenza più sorprendente di ricerca sul Covid riguarda i bambini. Dopo aver imposto tremende restrizioni a decine di milioni di bambini sani per quasi due anni, nessuno studio governativo o funzionario della sanità pubblica è in grado di dirci quanti bambini altrimenti sani siano morti a causa del Covid».