Lockdown, Draghi imita Conte. Così l’Italia rischia il collasso
Nessuna novità positiva dal primo decreto legge del Governo Draghi. Mantenuto il rigido sistema contiano delle zone a colori e il blocco agli spostamenti tra le regioni. In più, un’altra restrizione: il divieto di recarsi in abitazioni altrui se in zona rossa. Se questa linea verrà confermata anche dopo il 5 marzo, puntando solo su vaccini e fondi Ue, il nuovo esecutivo è destinato a fallire e non si comprende perché sia stato formato. L’inversione di tendenza può avvenire solo con le riaperture e un responsabile ritorno alla normalità per le imprese, la scuola, il turismo e gli altri settori vitali del Paese.
E così il primo decreto legge (almeno non è un Dpcm) partorito dal nuovo governo Draghi in materia di contrasto al Covid non ha prodotto alcuna novità, alcun segnale di un cambio di passo rispetto alla linea seguita precedentemente dall’esecutivo Conte-bis. Anzi. Non sono state allentate le chiusure di esercizi o le restrizioni al loro orario, come chiedevano a gran voce la Lega, alcuni governatori e molti comitati di protesta di imprenditori e lavoratori di settore. Né è stato modificato il rigido sistema delle zone a colori per renderlo più aderente alle situazioni di eventuale allarme, lasciando “respirare” i territori meno interessati dal contagio.
Al contrario, è stato confermato per un altro mese il blocco agli spostamenti tra tutte le regioni. E per sovrammercato, quasi a sottolineare che non si prevede alcuna concessione, è stata aggiunta un’ulteriore draconiana (e largamente inutile) restrizione: il divieto di recarsi in abitazioni altrui nelle regioni in zona rossa. Il tutto in un’atmosfera contrassegnata da continui, crescenti allarmi sulle famose “varianti” del virus provenienti da vari “consiglieri” scientifici dell’esecutivo; che non lasciano presagire nessun cambio di rotta a breve, e anzi sembrano preludere per il momento a blocchi ancor più severi.
Si dirà che questo è un provvedimento “d’ufficio” utile a prendere tempo, che la linea del governo andrà giudicata solo dopo la scadenza del 5 marzo, limite dell’ultimo Dpcm contiano, e solo allora verrà dispiegata una strategia organica in materia. Può anche darsi: ci auguriamo che per allora emergano novità sostanziali in netta soluzione di continuità con l’anno passato. Ma, francamente, è innegabile che finora praticamente tutti i segnali lanciati dal nuovo esecutivo vanno nella direzione opposta, e cioè quella di una continuazione delle politiche “chiusuriste” di Conte, analoghe e ancora più severe di quelle adottate ancora in paesi come Francia, Germania, Regno Unito.
In tal senso già la conferma di Roberto Speranza al dicastero della Salute era stata un colpo simbolicamente pesante per chi si attendeva cambiamenti. Durante il discorso programmatico in Senato per il voto di fiducia, poi, dal nuovo premier sul tema della strategia anti-Covid erano venuti accenni molto vaghi: dopo aver ricordato le vittime, i ricoverati, le drammatiche conseguenze economiche ed educative dell’emergenza sanitaria, in quella sede Draghi aveva soltanto indicato come priorità una mobilitazione massiccia per l’acquisizione, distribuzione ed effettuazione dei vaccini e il rafforzamento della medicina di base. Aggiungendo che il governo assicurava il suo massimo impegno affinché “le attività più colpite o fermate per motivi sanitari” possano “tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni”. In che tempi e in che modi, non veniva specificato.
Troppo poco: anzi quasi niente, se nulla si muove sul fronte delle riaperture. Se infatti nelle prossime settimane fosse confermato che la linea del governo sul tema consisterà essenzialmente nell’attendere i risultati di vaccini e fondi Ue, mantenendo nel frattempo in vigore sostanzialmente tutte le restrizioni ereditate da Conte, o addirittura in certi casi accentuandole, l’esecutivo Draghi si candiderebbe già drammaticamente al fallimento della missione che, in qualità di compagine di unità nazionale, è stata di fatto ad esso affidata: quella di tirare fuori rapidamente il paese dalla palude della recessione, far ripartire l’economia, ridare fiducia e speranza (con l’iniziale minuscola!) agli italiani.
L’Italia è, tra i grandi paesi industrializzati, quello che ha registrato dall’inizio dell’epidemia la più micidiale combinazione tra sprofondamento economico e disastro sanitario. La necessità di un cambiamento radicale di politiche in entrambi i sensi rispetto all’esecutivo Conte è nei fatti. A maggior ragione poi se viene chiamato alla presidenza del Consiglio il grand commis italiano che gode di maggiore autorevolezza internazionale. Insomma, o Draghi nel tempo della sua esperienza governativa (al massimo due anni, più probabilmente meno) riuscirà a determinare un’inversione di tendenza tangibile e significativa rispetto al meno 9,6% del 2020, o la sua discesa politica dovrà essere giudicata inutile, e il suo esecutivo non avrebbe avuto ragione di esistere.
Ora, per vedere i frutti del Recovery Fund occorreranno, nella migliore delle ipotesi, molti anni. E quand’anche nella campagna vaccinale si facessero miracoli, è molto difficile pensare che l’immunità di gregge possa essere raggiunta in quel modo prima almeno della fine del 2021. Se, in attesa di entrambi gli obiettivi, Draghi pensa di “galleggiare” nella gestione sanitaria dell’epidemia riproponendo più o meno, o al massimo ritoccando, la linea di Speranza, Galli e Ricciardi allora forse davvero non si rende conto di ciò che legittimamente ci si attende da lui.
La ripartenza, l’inversione di tendenza del paese, il “ritorno alla vita” (come lo ha chiamato il leader della Lega Matteo Salvini) ha qualche chance di verificarsi in tempi non inutilmente biblici soltanto se si riporta la questione dell’epidemia nell’alveo propriamente sanitario, e si decide subito, da domani, un responsabile ritorno alla normalità per le imprese, il commercio, il turismo, la cultura, l’arte, la scuola, l’università, lo sport.
Se non si verificasse una svolta immediata e decisa in questo senso, le aspettative enormi riposte dall’opinione pubblica nel nuovo governo potrebbero trasformarsi in una delusione cocente. Il destino politico dell’ex presidente della Bce potrebbe essere ancor più infelice di quello di Mario Monti, “bruciando” ogni sua aspirazione futura. Ma, soprattutto, la democrazia italiana e la coesione sociale rischierebbero un tragico collasso.