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IL DIBATTITO DOPO GENOVA

Lo Stato e i privati, il vero pluralismo è senza lobby

Nel nostro Paese sono le lobby più influenti e consolidate a dettare l’agenda dei grandi affari di Stato e a decidere le principali partite economico-finanziarie e produttive. Ma non per questo bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca. Se lo Stato rinuncia a svolgere il suo ruolo di regolatore, non per questo bisogna riabbracciare una retorica statalista che tanti danni ha fatto.

Attualità 24_08_2018

Il crollo del ponte a Genova e il tiro al bersaglio contro Autostrade e famiglia Benetton stanno riproponendo con vigore il tema della gestione e del controllo delle infrastrutture. Il governo giallo-verde sta avendo buon gioco nel cavalcare il malcontento e il risentimento popolare verso chi impone un esoso pedaggio a fronte di servizi spesso deficitari e non sicuri, ma la questione è assai più ampia e merita un approfondimento non di circostanza.

Nel dibattito di questi giorni sembra materializzarsi l’antico vizio italiano di buttare il bambino con l’acqua sporca, riesumando schemi e categorie del passato, che in questo caso appartenevano alla Prima Repubblica.

Prima di Tangentopoli lo Stato onnivoro aveva il completo controllo delle infrastrutture e, attraverso il sistema degli enti pubblici, gestiva l’erogazione dei principali servizi, con una logica spesso assistenzialistica e clientelare, scaricando sulla collettività perdite e inefficienze gestionali.

Gradualmente nei vari settori, da quello bancario a quello della telefonia, ci si è convertiti a una logica di libera concorrenza, con un mercato libero e aperto al potenziale ingresso di nuovi offerenti.

Lo Stato, anche per mancanza di risorse, ha fatto un passo indietro, lasciando spazio alla creatività dei privati. E’ successo, ad esempio, con Telecom, dove tuttavia ancora oggi il pubblico pretende di orientare in maniera pervasiva le scelte di governance.

Lo statalismo becero e improduttivo ha dunque lentamente lasciato il posto, almeno in parte, al pluralismo e alla sana competizione del mercato. In questo modo le perdite, sia pure spesso in una logica di condivisione pubblico-privato, sono state ripianate dai privati e dai concessionari e le casse dello Stato si sono sgravate di debiti accumulati negli anni. In altri casi, invece, vedi Alitalia, per mantenere a tutti i costi il controllo nelle mani pubbliche, i governi del passato hanno costretto i cittadini a pagare gli errori degli altri, i mega-stipendi e le pensioni d’oro di manager furbi e scaltri.

La tragedia di Genova ha spinto il governo Conte a ingaggiare un braccio di ferro con Autostrade sulla revoca della concessione e ha riattualizzato l’idea di una possibile nazionalizzazione del servizio autostradale. Alcuni esponenti dell’attuale esecutivo non hanno neppure escluso che tale modello di affidamento allo Stato di taluni servizi possa essere adottato anche in altri ambiti, ad esempio le telecomunicazioni.

A seguito di una disgrazia e dunque sull’onda dell’emotività irrazionale, si rischia però di riportare le lancette della storia del nostro Paese agli anni sessanta, cancellando i frutti positivi che la cultura del pluralismo e della libera concorrenza ha prodotto in Italia.

E’ vero, nel nostro Paese sono le lobby più influenti e consolidate a dettare l’agenda dei grandi affari di Stato e a decidere le principali partite economico-finanziarie e produttive. Ma non per questo, come detto, bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca.

Anziché demonizzare il privato e santificare il pubblico quale garanzia di trasparenza ed efficienza, bisognerebbe fare i conti con il mostruoso debito pubblico che il nostro Paese ha accumulato e prima o poi dovrà saldare, stimolando, anziché mortificando, lo spirito di intrapresa dei ceti produttivi e del mondo imprenditoriale ed evitando di illudere la popolazione con promesse di servizi gratuiti che certamente non potranno essere mantenute.

Il fatto innegabile che alcuni privati abbiano lucrato vantaggi, usando la sponda della politica, non è indice soltanto dell’inefficienza dei gestori dei servizi, bensì denota soprattutto la mancanza di controlli da parte del pubblico, che dopo aver assegnato le concessioni dovrebbe vigilare nell’interesse di tutti i cittadini e che invece non l’ha fatto. Se i controllori e i controllati si confondono, se lo Stato rinuncia a svolgere il suo ruolo di regolatore e a verificare la correttezza e la trasparenza delle procedure, non per questo bisogna riabbracciare una retorica statalista che tanti danni ha fatto negli anni al nostro Paese.