Lo schiaffo di Trump a Zelensky si fa sentire anche in Europa
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Il duro scontro di venerdì scorso nello Studio Ovale davanti ai media nasce da un rituale insolito per un incontro del genere: dilettantismo o "trappola" per ridicolizzare il presidente ucraino? In ogni caso la risposta del vertice di Londra appare confusa e velleitaria.
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Il summit di Londra che ha riunito molte nazioni europee più NATO, UE e il presidente ucraino per discutere come gestire la situazione dopo la rissa nello Studio Ovale di venerdì scorso tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump ha varato iniziative che appaiono confuse e già col fiato corto.
A parte l’ormai consueto impegno degli europei a spendere di più per la Difesa e ad essere pronti «ad assumersi maggiori responsabilità», come ha detto il premier britannico Keir Starmer, i punti salienti emersi al vertice di Londra sembrano celebrare più le divisioni tra gli alleati che unità d’intenti.
Starmer ha esposto i punti del piano britannico «volto a porre fine i combattimenti» in Ucraina, precisando che questo piano sarà discusso con gli USA e verrà attuato «insieme» a Washington. I leader presenti al summit hanno concordato su quattro punti.
Il primo prevede di mantenere l'aiuto militare all'Ucraina durante la guerra e aumentare la pressione economica sulla Russia: quindi verranno inasprite le sanzioni a Mosca mentre gli Stati Uniti parlano apertamente di ripristinare relazioni commerciali con Putin. Inoltre è noto che l’Europa non ha più aiuti militari da offrire a Kiev mentre gli Stati Uniti potrebbero bloccare ogni fornitura dopo la lite con Zelensky alla Casa Bianca.
Il secondo punto sostiene che un accordo di pace dovrà garantire la sovranità e la sicurezza dell'Ucraina che dovrà partecipare ai negoziati. Un punto che meriterebbe chiarimenti poiché la sovranità dell’Ucraina non è mai stata messa in discussione ma nei negoziati è certo che Mosca imponga cessioni territoriali a Kiev. Inoltre, come ha più volte precisato Trump, l’Ucraina non è nelle condizioni di dettare condizioni.
Starmer ha sostenuto che «naturalmente» un accordo dovrà includere Mosca ma la Russia «non può dettare i termini dell'accordo di pace». Eppure è evidente che le condizioni le detterà chi sta vincendo la guerra, non chi la sta perdendo, come ancora una volta Trump ha detto brutalmente a Zelensky.
Il terzo punto precisa che i leader europei cercheranno di dissuadere ogni futura invasione dell'Ucraina da parte della Russia e l’ultimo istituisce una «coalizione dei volenterosi» per difendere Kiev e garantire la pace nel Paese. Questo significa che saranno gli europei a offrire garanzie militari (quindi piuttosto deboli) e a promettere di inviare i propri eserciti in soccorso agli ucraini in caso di una nuova invasione. Un aspetto su cui è lecito avere dubbi poiché ben poche nazioni sembrano disposte a correre simili rischi.
Il premier polacco Donald Tusk ha ammesso che non c'è «unità» sul sequestro e utilizzo dei beni russi in Occidente, poiché alcuni Paesi «temono le conseguenze per l'euro o per il sistema bancario»: difficile credere che qualcuno sia disposto a inviare truppe europee in Ucraina.
Non a caso Giorgia Meloni ha ridimensionato il piano presentato da Gran Bretagna e Francia limitando ad affermare che «ci sono degli spunti, varie proposte, penso che chiunque metta sul tavolo una proposta faccia in questo momento una cosa utile. Poi ci possono essere perplessità su alcune proposte» come quella «dell'utilizzo di truppe europee su cui ho espresso perplessità», ribadendo che «la presenza di truppe italiane in Ucraina non è mai stata all'ordine del giorno».
La Meloni ha poi aggiunto che è «un errore togliere dal tavolo il dibattito sulla cornice atlantica» con un chiaro riferimento alla coalizione enunciata dal premier britannico, che sembra aver dimenticato che una delle condizioni poste da Mosca per trattare è che non vi siano truppe di paesi della NATO (e quindi neppure della UE o di coalizioni diverse composte dalle stesse nazioni) in territorio ucraino.
Starmer ha assicurato che già «un certo numero di paesi» ha offerto la disponibilità per il piano «che stiamo elaborando», ma non ha fornito dettagli pur affermando che questa coalizione è aperta anche a Paesi non europei.
I quattro punti elencati sono quindi molto aleatori se non nel punto in cui si affida la difesa dell’Ucraina a una “coalition of the willings”, cioè un’intesa tra nazioni che vorranno impegnarsi in tal senso: termine che suona come una campana a morto per la NATO e per la UE anche se il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha detto di sperare che gli europei lavorino per «trasformare l'Ucraina in un porcospino d'acciaio, indigesto per i potenziali invasori», termine già utilizzato nei giorni scorsi dall’ex premier britannico Boris Johnson.
Il premier britannico ha chiarito che «il grosso» lo dovrà fare l'Europa, ma avrà bisogno del sostegno degli Usa, aggiungendo di essere «d'accordo con Trump sulla necessità urgente di una pace duratura. Ora dobbiamo realizzarla insieme». Il premier britannico ha anche detto di non accettare che gli Usa possano essere considerati alleati «inaffidabili», a conferma che gli europei non hanno, oggi come ieri, la capacità di smarcarsi da Washington.
Il consigliere di Zelensky, Mikhailo Podolyak, ha poi enunciato in un’intervista quali garanzie di sicurezza Kiev pretenda di ottenere per negoziare la fine del conflitto e tra queste vi sono ampie assicurazioni di un intervento occidentale al fianco degli ucraini in caso di nuova guerra, forniture di armi a lungo raggio puntate sulla Russia e il potenziamento dell’industria bellica ucraina. Aspetti già in partenza esclusi da Mosca che chiede il disarmo di Kiev almeno per quanto riguarda le armi offensive.
Di fatto quanto affermato da Podolyak sembra dare ragione a Trump che ha accusato Zelensky di non voler la pace. Questo significa che la guerra continuerà o che il presidente ucraino potrebbe venire indotto a dimettersi e venire rimosso.
Il fatto che Podolyak abbia escluso le dimissioni del presidente indica che l‘ipotesi non è certo remota specie considerato che gli Stati Uniti hanno la potente arma degli aiuti militari per condizionare pesantemente il governo e anche il parlamento di Kiev, dove qualcuno parla di sfiduciare Zelensky dopo la disastrosa visita a Washington dei giorni scorsi, a cui il presidente ucraino si è presentato evidentemente impreparato.
«Certe conversazioni non andrebbero fatte davanti ai media, con tutto il rispetto per la democrazia» ha detto Zelensky intervistato da Fox News. «Nessuno vuole la pace più di noi ma una tregua senza garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti è un tema molto delicato per la mia gente».
Non c’è dubbio che la rissa nello Studio Ovale è stata determinata dal fatto che gli USA non intendono offrire garanzie di sicurezza all’Ucraina né rischiare di venire coinvolti in un conflitto con la Russia, ma la dinamica del battibecco ha evidenziato un grave dilettantismo nella gestione dell’incontro, inaspettato in incontri ad alto livello tra capi di Stato in cui le diatribe sono spesso molto accese ma vengono tenute lontano dai riflettori mediatici.
I summit prevedono una iniziale “photo opportunity” della durata di pochi minuti in cui i giornalisti scambiano qualche parola con i leader, scattano foto e fanno riprese video. Successivamente, a porte chiuse, si tengono i colloqui tra i leader, che possono essere anche duri come quello che abbiamo visto venerdì ma in cui nessuno perde la faccia perché si svolgono lontano dai media e dal pubblico.
Al termine dei colloqui, con gli staff della comunicazione si stabilisce cosa dichiarare congiuntamente e quali note di linguaggio utilizzare per definire i temi all’ordine del giorno, specie se vi sono visioni divergenti. Solo dopo aver definito questi aspetti i due leader si presentano alla conferenza stampa congiunta con tutti gli strumenti necessari a evitare di mostrare in pubblico aspre contrapposizioni.
Venerdì invece la “photo opportunity” è stata trasformata in dibattito davanti ai media e in conferenza stampa: grossolano errore tecnico che ha portato a un disastro sorprendente in un contesto come quello della Casa Bianca, a meno che non si sia trattato di un agguato teso a screditare Zelensky, mettendolo all’angolo e ridicolizzandolo, mostrandolo come un bullo che pretende sempre più armi e denaro dagli Stati Uniti.
Richieste a cui “il nuovo sceriffo” (come il vicepresidente JD Vance ha chiamato Trump) si oppone per tutelare gli interessi degli Stati Uniti e dei contribuenti americani. Se questa ipotesi fosse confermata, la missione è stata compiuta, in modo inurbano e brutale ma con successo. Non a caso poco dopo la cacciata della delegazione ucraina dalla Casa Bianca il senatore repubblicano Lindsey Graham, da sempre grande sostenitore di Zelensky, ne ha chiesto le dimissioni.
Trump ha quindi seminato il panico a Kiev e gettato nel caos l’Europa. L’unica cosa certa è che a Mosca in molti hanno brindato.