Liturgia, nuova stoccata alla tradizione (e al Concilio)
Nella lettera apostolica Desiderio desideravi Francesco mostra di voler mettere una pietra tombale sul rito antico nel nome del Concilio, ma non si può ignorare che la riforma è andata ben oltre la Costituzione sulla liturgia, quando non addirittura contro. Ed è stata attuata ancora peggio.
In quel di Roma sembrano non digerire le critiche montanti che da mesi si sollevano contro il Motu Proprio Traditionis Custodes. La Lettera Apostolica Desiderio desideravi che papa Francesco ha firmato ieri, nella Solennità dei Santi Pietro e Paolo, dedicata alla formazione liturgica del popolo di Dio, ritorna sul punto fondamentale del Motu Proprio di quasi un anno fa, e cioè la volontà di mettere una pietra tombale sul Rito antico. Nella chiusura della lettera, il Papa mostra di aver accusato il colpo delle critiche montanti, ma anziché ritornare sui proprio passi, cerca di gettare acqua sul fuoco esortando ad abbandonare le polemiche «per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa» (n. 65) e custodire la comunione.
Il guaio è che è proprio la Lettera Apostolica a fornire il combustibile che ha alimentato la polemica di questi mesi, nonché a porre le condizioni per uno strappo più esteso della comunione ecclesiale. Moltissimi sono i paragrafi di Desiderio desideravi che si potrebbero sottoscrivere: l’importanza del silenzio (n. 52), dell’ars celebrandi (n. 49 e ss.), dell’evitare ogni personalismo dello stile celebrativo (n. 54). Apprezzabile è anche la serena riflessione sulla teologia liturgica. Ma ci sono alcuni gravi problemi che non possono essere passati sotto silenzio e che necessariamente monteranno ancora di più la critica verso la “linea liturgica” di questo pontificato, soprattutto da quando Arthur Roche ha preso le briglie del Dicastero competente.
Primo problema. Secondo Francesco l’accoglienza della riforma liturgica è condizione necessaria per l’accoglienza del Concilio Vaticano II. Nel rifiuto della riforma egli scorge un problema ecclesiologico: «La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio [...] e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen Gentium» (n. 31). E’ vero che vi è chi ritiene che la riforma liturgica sia espressione del Vaticano II e che debba perciò essere rifiutata; ma non si può far finta che invece vi siano altre posizione che mostrano come in realtà la riforma sia andata ben oltre, quando non addirittura contro, le indicazioni di Sacrosanctum Concilium. E la riforma così come si è concretamente attuata ancora peggio.
Piacerebbe capire quando e dove i Padri conciliari abbiano richiesto l’abolizione del tempo di Settuagesima, dell’Ottava di Pentecoste, delle Rogazioni, delle Quattro Tempora (in verità lasciate ad libitum alla decisione delle pigre Conferenze Episcopali), il rifacimento ex-novo dei riti dell’Offertorio. Così come non sarebbe male capire sulla base di quale testo del Concilio di fatto la lingua latina non sia più utilizzata ed il canto gregoriano da canto proprio della liturgia romana (SC, 116), ne sia diventato la Cenerentola. Anche storicamente non si può negare il fatto che il Messale che più da vicino ha incarnato le indicazioni di SC sia, a prescindere dall’apprezzamento, quello del 1965 e non quello del 1969.
In questo modo il Santo Padre non fa altro che misconoscere, senza nemmeno accettare un confronto costruttivo, tutte quelle posizioni critiche nei confronti di alcuni aspetti della riforma, che tuttavia non si pongono in atteggiamento di rifiuto del Vaticano II. Alcuni testi del quale non si capisce perché non debbano poter essere oggetto di miglioria e, nelle parti non dogmatiche, di riconsiderazione. Se dunque si vuole veramente spegnere le polemiche e ricostruire la comunione ecclesiale sulla liturgia, bisognerebbe almeno ascoltare con rispetto le posizione contrarie, non squalificarle a prescindere come anti-conciliari.
Il proseguo del paragrafo 31 solleva il secondo grande problema della Lettera Apostolica: «Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1)». Con tutto il rispetto per l’autorità pontificia, il Papa non può cancellare la realtà con una semplice dichiarazione. Perché prima o poi bisognerà rispondere ad alcune elementari domande: se i libri scaturiti dalla riforma liturgica sono l’unica espressione del Rito Romano, i libri liturgici del 1962, in uso per espressa autorizzazione anche dell’attuale Pontefice, che cosa sono? Che cosa esprimono? E prima della riforma, quei libri liturgici che cosa esprimevano? Che il Rito Romano non inizi con il Concilio Vaticano II è un fatto con cui bisognerà prima o poi far pace. E trarne anche le debite conseguenze.
Terzo problema. Per i due contenuti di cui sopra, Francesco si mette in posizione di rottura definitiva con il pontificato di Benedetto XVI. Il quale, tra l’altro, non viene nemmeno una volta citato nella Lettera Apostolica, nonostante abbia fatto della questione liturgica il cuore del suo pontificato. Meglio così, piuttosto che tirarlo per la tonaca, come si è fatto in Traditionis Custodes, per affermare che operare in senso diametralmente opposto a quanto ha fatto Benedetto non significa andare contro la linea da lui tracciata. Tentativo fallito di equilibrismo mentale. Se il Motu proprio aveva di fatto tagliato la testa alla linea di papa Benedetto, Desiderio desideravi ne seppellisce il cadavere. Come si fa allora a chiedere di far cessare le polemiche per ritrovare la comunione ecclesiale? Se un Pontefice decide di mettersi in totale rottura con chi lo ha preceduto, come può poi appellarsi alla comunione? Se un pontefice disconosce quello che lo Spirito ha ispirato al suo predecessore, come può puoi fare appello a mettersi in ascolto dello Spirito?
Infine, c’è un problema di proporzioni. Francesco offre l’ennesima stoccata ai “merlettari”, ribadendo che «la continua riscoperta della bellezza della Liturgia non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale» (n. 22). Tirato il sasso, subito ritira la mano, spiegando che «questa affermazione non vuole in nessun modo approvare l’atteggiamento opposto che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico». Anzi, «ogni aspetto del celebrare va curato [...] e ogni rubrica deve essere osservata» (n. 23).
Benissimo. Bisognerebbe però che questa cura per le forme e le rubriche si traduca in qualcosa di concreto. Mentre invece, ad oggi, si registra solamente una sistematica severità verso quanti sono legati ad un rito che conosce secoli di storia, mentre invece non si è mossa un’unghia per frenare i continui abusi liturgici che si verificano da ogni parte in quella che lui ritiene essere la Messa del Concilio: vescovi che entrano in bicicletta in chiesa, parole del Messale cambiate, vesti liturgiche rese facoltative, omelie tenute da laici, e magari anche gay, preti vestiti da clown, danze di vario genere, orrori architettonici e musicali. Se il Papa usasse metà della determinazione che impiega nel perseguitare i “tradizionalisti” per risolvere il problema degli abusi, saremmo già a buon punto. E la sincerità delle sue affermazioni sarebbe credibile. Invece per i gravi, ripetuti e crescenti abusi liturgici giusto una timida tirata d’orecchi; per chi ama la Messa antica, la condanna dell’estinzione.