L'invio delle armi non aiuta l'iniziativa diplomatica
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Riguardo all'invio di armi al Paese aggredito da parte di paesi neutrali, nel diritto internazionale si fronteggiano due posizioni: l'assoluta illegittimità e la liceità per evitare un vantaggio all'aggressore. Ma è un fatto che solo una effettiva neutralità può rendere credibile la diplomazia.
Nella risoluzione delle controversie internazionali sussiste un principio di carattere cogente, proprio del diritto internazionale consuetudinario, che vieta il ricorso alla forza armata. Esso, tuttavia, incontra un limite generale nella legittima difesa intesa quale risposta ad un attacco giá sferrato. Lo stesso art. 51 della Carta delle Nazioni Unite del 1945 riconosce "il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva" nel caso abbia luogo quello che nella versione in lingua francese viene definito "aggression armée".
Ora, l'Italia, insieme agli altri Stati membri dell'Unione Europea e agli Stati Uniti d'America, dovrebbe collocarsi in una posizione di neutralitá con le conseguenze che questa comporta, in quanto manca un suo coinvolgimento militare nel conflitto il quale vede fronteggiarsi, al di lá delle ripercussioni geopolitiche, la Repubblica di Ucraina da una parte e la Federazione Russa dall'altra. Il divieto di fornitura di materiale bellico e di ausilio logistico-militare costituisce, com'é noto, una delle condizioni nelle quali si sostanzia la neutralitá.
Sul punto alcuni internazionalisti (ad esempio il prof. Michael Bothe) ritengono che nessun supporto di qualunque tipo allo Stato aggredito, neppure sulla base del diritto di legittima difesa collettivo, sarebbe ammesso per il diritto internazionale. Questa posizione cosí netta é, in realtá, motivata dalla distinzione tra lo "ius ad bellum" (il diritto di fare ricorso alla guerra), in cui rientrerebbe la legittima difesa da parte dell'Ucraina, e lo "ius in bello" (il diritto in guerra che coinvolge i belligeranti) in cui rientrano le norme sulla neutralitá.
Confondere i due piani, é stato sostenuto, significherebbe far venir meno il principio di uguaglianza delle parti nel conflitto, indipendentemente dalle concrete ragioni che vi sono sottese e dalle continue richieste di Kiev, e legittimare contromisure (non, peró, una reazione militare) da parte dello Stato aggressore come peraltro avviene.
La neutralitá, dunque, quale condizione contemplata dal diritto internazionale per gli Stati che non partecipano ad una guerra, puó svolgere efficacemente la sua funzione di cessazione o contenimento dei conflitti solo se la questione di quale sia l'aggressore e quale sia la vittima rimane irrilevante per la valutazione di certi fatti. Il che ovviamente non esime dalla individuazione di precise responsabilitá internazionali a conflitto concluso.
É certamente vero, da un lato, che non mancano le voci contrarie a questo tipo di impostazione, soprattutto ad opera di quegli autori (Clapham) che ragionano in termini di "neutralitá qualificata" e sul fatto che la stessa (la neutralitá) non dovrebbe mai rappresentare un vantaggio per lo Stato aggressore (Greenwood), ma é anche vero, dall'altro, che solo ordinamenti statali davvero neutrali possono svolgere una funzione diplomatica credibile e persuasiva per mettere fine ad una carneficina quotidiana che rischia ogni giorno di piú di allargarsi.