Libertà vigilata. Vietato contestare il Presidente
L'inchiesta a carico del professor Marco Gervasoni e della giornalista Francesca Totolo, tra gli altri, per “offesa all'onore e al prestigio del Capo dello Stato” è indice di un forte deterioramento della libertà di espressione in Italia. Perché, nulla fra le frasi espresse dal professore, appare come un vilipendio o una minaccia. Storia di una deriva autoritaria partita dagli anni Novanta.
L'inchiesta a carico del professor Marco Gervasoni e della giornalista Francesca Totolo, tra gli altri, per “offesa all'onore e al prestigio del Capo dello Stato” (altrimenti detto vilipendio) è solo l'ultimo di una serie ormai sterminata di episodi che ci obbligano ad una riflessione complessiva sullo stato della libertà di opinione ed espressione in Italia.
Appare ormai chiaro che (a meno di rivelazioni clamorose) i due sono indagati soltanto per alcuni pronunciamenti pubblici attraverso i social, certamente molto critici verso il Presidente della Repubblica e talvolta dai toni aspri, ma chiaramente rientranti all'interno del dibattito politico di un qualsiasi Paese democratico pluralista. Che in base a tali pronunciamenti siano state ordinate perquisizioni domiciliari da parte dei carabinieri, sequestri, e si siano ventilate addirittura cospirazioni eversive, è assai preoccupante, perché tende a creare di fatto un effetto intimidatorio nei confronti di qualsiasi voce di opposizione all'operato della carica istituzionale in questione.
Ma tale pressione non appare nemmeno un fatto occasionale o isolato, l'eccesso di zelo di qualche magistrato, bensì in tutta evidenza si inserisce all'interno di una tendenza sempre più marcata, riscontrabile negli ultimi decenni, alla delegittimazione, per non dire alla criminalizzazione, di voci e opinioni dissonanti con alcune parole d'ordine e linee di pensiero veicolate nelle istituzioni governative nazionali, in quelle internazionali, nel grande mainstream della comunicazione di massa.
Si tratta di un processo presente in tutte le democrazie occidentali, da quando è sempre più frequente il tentativo di censurare dal dibattito pubblico, in base alla retorica “politicalcorrettista”, ogni opinione contraria all'immigrazione clandestina e al multiculturalismo, critica verso l'ipotesi del “riscaldamento globale” di origine antropica, contraria alla totale relativizzazione dei diritti soggettivi e parametri naturali in tema di sessualità e famiglia, principio e fine della vita: bollando i sostenitori di tali opinioni con epiteti infamnti come razzisti, “islamofobi” “negazionisti”, “omofobi”, e simili (ne vediamo in questo periodo un saggio eloquente nella campagna di emarginazione del dissenso sul ddl Zan).
Ma il tentativo di zittire le voci sgradite si è drammaticamente approfondito negli ultimi anni con lo scontro aperto tra le super-élites globaliste, padrone quasi incontrastate del grande sistema digitalizzato dei media, e le forze antiglobaliste, sovraniste, conservatrici: culminato con la vera e propria cancellazione dell'ex presidente statunitense Donald Trump dai social media e con la sua criminalizzazione ad opera di tutto il mondo della comunicazione e della cultura di massa.
In Italia, all'invasione dell'intolleranza del progressismo woke d'Oltreoceano e Oltralpe si aggiungono, però, fattori tipicamente nazionali, che favoriscono la radicalizzazione dello scontro politico e il ricorrente tentativo, da parte di determinate parti in causa, di isolare ed eliminare i propri avversari politici additandoli come delinquenti e/o eversori dell'ordine costituito: in particolare, l'eredità dell'autoritarismo poliziesco fascista, quella della cultura totalitaria comunista - a lungo egemone anche nella democrazia del secondo dopoguerra - e la tendenza ad un alto tasso di politicizzazione di importanti apparati dello Stato (magistratura, servizi segreti, amministrazione) connessa ad entrambe.
Su queste basi a partire dagli anni Novanta, con il collasso dei partiti politici tradizionali, si è innescato un conflitto politico di una durezza inusitata, in cui ripetutamente le sinistre post-comuniste e le loro appendici rudemente antipolitiche (dalla Rete di Orlando all'Italia dei Valori di Di Pietro, fino al Movimento 5 Stelle) hanno tentato di “mostrificare” ad personam i propri avversari politici più competitivi - da Craxi a Berlusconi, fino a Salvini - e i loro sostenitori, approfittando di una persistente propensione di parte della magistratura inquirente a mettere sotto inchiesta esponenti politici percepiti come scomodi per le parti politiche ad essa più vicine.
All'interno di tale quadro, un'ulteriore accelerazione dell'intolleranza a senso unico si è venuta a determinare nell'ultimo decennio, con l'instabilità politica iniziata nel 2011, i governi “tecnici” o di “larghe intese”, la situazione di quasi ingovernabilità successiva alle elezioni del 2018. In questo periodo è emersa con sempre maggiore evidenza l'agglomerazione di una sorta di “super-maggioranza” politica intorno ai maggiori poteri delle istituzioni, come a voler contrastare la disgregazione crescente con un compattamento dello Stato.
Ne è derivata, tra l'altro, una considerevole accentuazione del potere politico del Capo dello Stato, già dilatatosi progressivamente a partire dall'inizio della “seconda Repubblica”, che è diventato sempre più il vero punto di riferimento e “padre nobile” delle maggioranze di governo, in una sorta di presidenzialismo “strisciante” senza elezione popolare: ruolo saldamente ricoperto prima da Giorgio Napolitano, poi da Sergio Mattarella. E, paradossalmente, alla sempre maggiore responsabilità effettiva dell'inquilino del Quirinale è andata affiancandosi una crescente sottolineatura della sua irresponsabilità politica, della sua “intoccabilità” da parte di tutti gli attori del dibattito civile.
Non sorprende, dunque, che in tale contesto sia tornata ad essere agitata sempre più spesso una fattispecie di reato – quale, appunto, il vilipendio al Capo dello Stato – che era, con altri simili (recentemente depenalizzati, peraltro), un residuo del Codice penale fascista di Alfredo Rocco, e che nella vita repubblicana era stato sempre oggetto di feroci polemiche da parte di chi sosteneva rappresentasse un modo per continuare a perseguire reati di opinione, del tutto incompatibile con l'articolo 21 della Costituzione (si ricorda in proposito soprattutto il referendum abrogativo tenutosi su iniziativa del Partito radicale nel 1981). Ipotesi di reato agitato molto raramente verso Capi dello Stato colpiti da critiche spesso feroci o accuse di partigianeria, come Giovanni Leone, Francesco Cossiga o Oscar Luigi Scalfaro.
Ora l'infuocata temperie polemica determinata da un parlamento sempre più ingovernabile e la pressione di una situazione inusitata come l'emergenza Covid, con le fortissime restrizioni delle libertà costituzionale decise dai due ultimi esecutivi, hanno hanno creato ulteriori motivi di contrapposizione in cui il Capo dello Stato viene inevitabilmente coinvolto. E non a caso l'accusa di “offesa all'onore e al prestigio” del Presidente viene utilizzata da qualche magistrato come leva per costruire, servendosi soprattutto dell'enorme materiale offerto dai social, un allarme sociale per presunte congiure di estremisti di destra contro le istituzioni: all'interno del quale si cerca di trascinare, a dispetto di ogni logica, anche intellettuali di destra conservatrice come Gervasoni, sfruttando la sua vis polemica come capo d'accusa, con effetti che sarebbero comici, se non fossero indice di un deterioramento delle garanzie di libertà giunto ormai oltre i livelli di guardia.