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L’IMPEGNO DEGLI USA

Libertà religiosa, vita e famiglia: svolta di Trump all’Onu

Il 23 settembre Donald Trump è divenuto il primo presidente statunitense a ospitare un meeting alle Nazioni Unite sulla libertà religiosa, spronando i governi a garantire a ogni persona il diritto di «seguire la propria coscienza, vivere la propria fede, e dare gloria a Dio». Nello stesso giorno una dichiarazione congiunta degli Usa con altri 18 Paesi (solo due dell’Ue) per difendere la famiglia e i nascituri.

Attualità 26_09_2019

Nelle stesse ore in cui il quartier generale delle Nazioni Unite diveniva teatro della messinscena climatica con testimonial Greta Thunberg, applaudita dagli stessi potenti che stava fustigando, l’amministrazione Trump faceva due importanti discorsi al Palazzo di Vetro, uno a difesa della libertà religiosa e un altro per la salvaguardia della vita umana fin dal concepimento.

Partiamo da quello tenuto il 23 settembre direttamente dal numero uno della Casa Bianca, divenuto il primo presidente statunitense a ospitare un meeting all’Onu sulla libertà religiosa. Dopo i ringraziamenti di rito, Donald Trump è entrato nel vivo del discorso con queste parole: «Gli Stati Uniti sono fondati sul principio che i nostri diritti non vengono dal governo; vengono da Dio». Ha quindi aggiunto che questa «verità immortale» è proclamata nella Dichiarazione di Indipendenza e garantita dal primo emendamento della Costituzione americana perché «i nostri fondatori capivano che nessun diritto è più essenziale per una società pacifica, prospera e virtuosa del diritto di seguire le proprie convinzioni religiose».

Manifestando la sorpresa avuta all’atto di ricevere le statistiche, il tycoon ha affermato che «circa l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi in cui la libertà religiosa è minacciata, limitata o addirittura vietata». Questi problemi riguardano, chiaramente in forme e modi diversi, tutte le religioni. «Mentre parliamo, ebrei, cristiani, musulmani, buddisti, indù, sikh, yazidi, e molte altre persone di fede vengono incarcerate, sanzionate, torturate e perfino uccise, spesso per mano del proprio governo, semplicemente per aver espresso le loro profonde convinzioni religiose».

Dopo aver fatto presente la sua nomina di un delegato per monitorare l’antisemitismo, Trump ha sottolineato una situazione di particolare gravità, quella dei «quasi 250 milioni di cristiani nel mondo che sono perseguitati per la loro fede. Si stima che 11 cristiani vengano uccisi ogni giorno […] per aver seguito gli insegnamenti di Cristo. Chi potrebbe mai pensare che sia possibile ai nostri giorni?». I numeri qui citati dal presidente americano riflettono quelli contenuti nell’ultimo rapporto annuale di Open Doors (la World Watch List 2019), che parla di 4.136 cristiani uccisi (poco più di 11 al giorno) per ragioni legate alla fede nei 50 Paesi ritenuti più pericolosi per il cristianesimo.

Trump ha poi ricordato alcuni recenti atti di violenza in luoghi sacri, come l’uccisione nel 2016 di padre Jacques Hamel mentre celebrava Messa in una chiesa francese, gli attacchi dell’anno passato contro le sinagoghe in California e Pennsylvania, gli attentati contro i musulmani a Christchurch, e le stragi nel giorno di Pasqua in tre chiese cristiane dello Sri Lanka. Da qui la richiesta a tutte le nazioni di un maggiore impegno sul fronte giudiziario anche aumentando le pene dei crimini contro le varie fedi, compresa la distruzione intenzionale di luoghi religiosi e reliquie, alla cui protezione gli Usa destineranno «altri 25 milioni di dollari». Il governo Trump si fa inoltre promotore di una coalizione di imprese statunitensi per salvaguardare la libertà religiosa sul luogo di lavoro.

Il presidente non lo dice in modo esplicito, ma per chi segue le cronache è evidente che questo è un problema anche molto americano, sia nel pubblico che nel privato, visti i vari processi che hanno coinvolto persone di fede restie ad accettare la nuova morale del politicamente corretto (vedi soprattutto quanto successo dopo il “mandato contraccettivo” dell’Obamacare e la sentenza della Corte suprema sulle “nozze gay”). Il messaggio è comunque chiaro e si può applicare a tutto l’Occidente: «Troppo spesso, le persone in posizioni di potere predicano la diversità mentre zittiscono, evitano o censurano i fedeli». Così, dopo aver lodato i sopravvissuti alle persecuzioni presenti al Palazzo di Vetro («siete un’ispirazione per il mondo»), Trump ha lanciato questo appello finale: «Chiediamo ai governi del mondo di onorare l’eterno diritto di ogni persona di seguire la propria coscienza, vivere la propria fede, e dare gloria a Dio».

L’ONU NON PROMUOVA L’ABORTO

Sempre il 23 settembre c’è stato l’altro significativo appello del governo a stelle e strisce, con il discorso del segretario della Salute, Alex Azar, che nell’apposito meeting in cui si discuteva di «copertura sanitaria universale» ha chiesto di concentrare gli sforzi internazionali sulla «salvaguardia della vita umana». Frase non scontata in tempi in cui l’aborto e pure l’eutanasia vengono spacciate per pratiche mediche.

Dando seguito alla lettera inviata in estate dall’amministrazione Trump ai rappresentanti di tutti gli Stati membri dell’Onu (clicca qui), Azar ha letto quindi una dichiarazione congiunta di 19 Paesi, aventi nel complesso più di 1,3 miliardi di abitanti, in cui si ricorda che «non c’è un diritto internazionale all’aborto». I 19 Paesi, oltre agli Stati Uniti, comprendono: Arabia Saudita, Bahrain, Bielorussia, Brasile, Egitto, Emirati Arabi, Guatemala, Haiti, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Polonia, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Sudan, Ungheria, Yemen. Dunque, solo due Stati dell’Unione europea, oggi i più invisi all’establishment di Bruxelles.

Nella dichiarazione congiunta si afferma che «la famiglia è l’istituzione fondamentale della società e quindi dovrebbe essere sostenuta e rafforzata». Si respinge l’uso nei documenti dell’Onu di espressioni ambigue come «salute e diritti sessuali e riproduttivi», che la cultura pro morte intende come sinonimo di diritto all’aborto e veicolo del gender. Si legge infatti che «tali termini non tengono adeguatamente conto del ruolo chiave della famiglia nella salute e nell'educazione, né del diritto sovrano delle nazioni di attuare politiche sanitarie» e «questi termini non dovrebbero essere utilizzati per promuovere politiche e misure a favore dell’aborto».

Si chiede inoltre di citare nelle risoluzioni solo quei documenti adottati «da tutti gli Stati membri» e alle agenzie dell’Onu di comportarsi sul campo di conseguenza. Certo, la dichiarazione non rigetta tutta la cultura insita nel mondialismo, ma le precisazioni viste sono un segnale incoraggiante. Così come l’ennesimo richiamo di Trump contro l’aborto, nel discorso fatto giorno 24, stavolta all’Assemblea Generale, quando si è scagliato contro «i burocrati globali» che attaccano «la sovranità delle nazioni che desiderano proteggere la vita innocente. Come molte nazioni qui oggi, in America crediamo che un bambino, nato e non nato, è un dono sacro di Dio». Fare arrivare questa voce in quelle stanze è un buon primo passo.