Libertà religiosa, un falso appiglio per la "dottrina Tucho"
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Il cardinale Fernández ha evocato anche Dignitatis humanae a sostegno della sua personalissima nozione di "sviluppo". Un paragone che non regge, rivelandosi l'ennesimo pretesto per disfare il magistero.
Nella Conferenza stampa in occasione della pubblicazione di Dignitas infinita, il Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede ha presentato i fondamenti di quello che egli intende per sviluppo dell'insegnamento della Chiesa. L'affermazione che tale sviluppo significhi «una crescita nella comprensione della sua verità» o ancora «crescente esplicitazione» non può che trovare consenso.
Quando però si va a verificare più da vicino che cosa il cardinale Victor M. Fernández intenda realmente con questo sviluppo, il consenso non è più possibile: «Questo processo evolutivo di comprensione della verità, dunque, ha attraversato secoli di storia, fino ad arrivare al rifiuto totale della pena di morte da parte di Papa Francesco. L’approvazione pontificia della modifica al testo del Catechismo della Chiesa Cattolica riguardo alla pena capitale, avvenuta nel 2018, costituisce il culmine della riflessione della Chiesa sull’inviolabile dignità umana».
Da una parte abbiamo la prassi e l'insegnamento costante della Chiesa relativo alla legittimità della pena capitale, a certe condizioni, dall'altra l'insegnamento recente che essa non è mai ammissibile in quanto sempre contraria alla dignità della persona. Ora, poiché l'approfondimento della verità implica, come sua condizione minimale, che non vi debba essere contraddizione tra la comprensione della verità nel momento 1 e quella nel momento 2, non si può non far notare che una universale negativa (non è mai ammissibile la pena di morte) è contraddetta da una particolare affermativa (a volte è ammissibile).
Si è già visto come un precedente storico invocato da Fernández, quello relativo all'ammissione/condanna della schiavitù, fosse del tutto fuorviante. Ma nel testo scritto della Conferenza stampa dell'8 aprile scorso (non pronunciato oralmente), compare un altro presunto supporto storico all'idea di sviluppo portata avanti da Tucho: la libertà religiosa.
Così Fernández: «Un altro esempio: nel 1832 Papa Gregorio XVI, in Mirari vos, aveva detto che è una “sentenza assurda ed erronea, o meglio illusoria, che la libertà di coscienza debba essere ammessa e garantita a chiunque” (MV 15). Nel Syllabus di Pio IX (1864) la libertà religiosa è stata condannata come uno dei principali “errori”. Ma nel secolo successivo, il Concilio Vaticano II modificò sostanzialmente queste idee nella Dichiarazione Dignitatis Humanæ». Fernández riporta a questo punto il testo cruciale, ossia il § 2 della Dichiarazione sulla libertà religiosa: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa […] Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana […] Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura».
Questo riferimento storico da parte di Fernández merita un solo aggettivo: sciagurato. Perché Tucho non può non sapere che questo soggetto è stato una delle cause principali di un doloroso scisma tutt'ora in atto; e perché il Prefetto, mentre nello stesso intervento afferma che si deve prestare l'ossequio della volontà e dell'intelletto al magistero autentico (vedi qui), se ne infischia di quel magistero autentico che porta la firma di Benedetto XVI, e che si concretizzò nell'arcinoto Discorso alla Curia romana del 2005: interpretare i testi del Concilio in continuità con i precedenti. Due elementi che avrebbero dovuto portare Tucho ad essere più circoscritto nelle sue affermazioni, o che almeno avrebbero richiesto da parte sua una maggiore argomentazione. Né l'uno né l'altro.
L'interpretazione che egli dà al tema della libertà religiosa si colloca tranquillamente in quell'ermeneutica della discontinuità e della rottura denunciata da papa Benedetto, ed ora portata avanti nientemeno che dal Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede. Basandosi, tra l'altro, sullo stesso errore da lui commesso relativamente alla schiavitù.
Che cosa condannava, infatti, Gregorio XVI quando respingeva la “libertà di coscienza”? Parimenti, che cosa intendeva colpire Pio IX quando si scagliava contro la “libertà religiosa”? E quale libertà religiosa affermava invece Dignitatis Humanæ?
Iniziamo dalla Mirari vos (1832). L'enciclica si colloca nel contesto dei moti rivoluzionari “liberali” che nel 1831 coinvolsero anche lo Stato Pontificio, e affronta il tentativo di Félicité R. de La Mennais, fondatore e direttore del giornale L'Avenir, di “battezzare” i principi rivoluzionari. Se si legge l'enciclica nella sua integralità, e tenendo presente il contesto storico indispensabile per comprendere quale realtà si intenda focalizzare dietro le espressioni usate dall'enciclica, si comprende che il suo bersaglio principale è l'indifferentismo, secondo il quale la salvezza non dipende dalla professione della vera fede, ma dall'onestà della vita e dei costumi, a prescindere dalla religione che si professa. L'enciclica intende esplicitamente colpire quella libertà di coscienza che scaturisce «da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo»; e che poi genera l'altro errore della libertà di opinione. Si tratta in sostanza di quella libertà di coscienza intesa come autorizzazione positiva o affermativa a che ciascuno agisca in materia religiosa come vuole.
Pio IX, poco più di trent'anni dopo, in un contesto in cui le aggressioni dei liberali si erano fatte ancora più violente, e che porteranno da lì a poco alla presa di Roma da parte dei Bersaglieri, condannava l'affermazione che riteneva «essere ottima la condizione della società nella quale non si riconosce nell’Impero il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della Religione cattolica, se non in quanto lo chieda la pubblica pace». Massima attenzione ai corsivi (nostri). Il primo: chi sono i «violatori della Religione cattolica»? Non si tratta di chiunque non concordi con la Chiesa cattolica o aderisca ad altri culti, ma – come si comprende dal contesto storico – di quanti violano i diritti della Chiesa cattolica e sostengono che sia possibile lederne i diritti. Secondo corsivo: che cos'è questa «pubblica pace», ritenuta come unica condizione che renderebbe lecito l'intervento dell'autorità in materia religiosa? La pax publica nell'Ottocento significava l'ordine pubblico stabilito dalla legge dello Stato e non l'ordine pubblico giusto; in sostanza, i liberali equiparavano la pace pubblica con le leggi positive dello Stato, a prescindere dalla loro corrispondenza con il bene pubblico oggettivo.
Sia Gregorio XVI che Pio IX avevano condannato in modo definitivo, e dunque richiedendo un assenso altrettanto definitivo e incondizionato, da una parte un presunto diritto positivo (o affermativo) a praticare la religione che si vuole (libertà di coscienza – libertà di culto), sulla base di un sostanziale indifferentismo religioso, e dall'altra un rapporto Stato-Chiesa di sostanziale estraneità o separazione, con lo Stato chiamato ad intervenire nell'ambito religioso solo quando vengono violate le leggi civili.
Nessuno dei due papi ha inteso condannare il semplice diritto a non essere impediti o forzati ad agire in ambito religioso, entro i giusti limiti richiesti dal bene pubblico oggettivo. Ed è proprio questa immunità «dalla coercizione (…) così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa» che Dignitatis Humanæ difende. Immunità fondata «realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione».
Dunque, non un diritto positivo ad agire come si vuole, quasi che errore e verità abbiano gli stessi diritti, equazione tipica dell'indifferentismo, ma un diritto negativo ad esigere un non intervento del potere umano in questa sfera, a meno che non venga minato l'ordine pubblico oggettivo, che non coincide con le mere leggi dello Stato, le quali possono essere insufficienti o perfino inique. Il che significa più semplicemente che lo Stato ha dei limiti, che non può esercitare un potere assoluto, soprattutto in quella sfera nella quale l'uomo cerca o dovrebbe cercare, anche sbagliando, Dio.
La Chiesa già conosceva questo tipo di diritto negativo, quando, per esempio, difendeva (e difende) il diritto dei genitori che allevano i propri figli in falsi culti a non essere impediti in questa educazione, e dunque ad esigere il non intervento dello Stato, fatti salvi sempre i giusti limiti. Non è un diritto positivo, ma appunto un diritto negativo che in sostanza dice allo Stato: non ti è lecito.
Dunque, ancora una volta, Fernández non realizza che dietro parole uguali o simili – libertà religiosa e di coscienza – si nascondono realtà differenti: l'una condannata e l'altra difesa. Se non lo comprenda o non lo voglia comprendere non è dato saperlo; di certo, una persona di così evidenti limiti e palmare imprudenza non dovrebbe essere nel posto in cui è. L'idea dello sviluppo portata avanti da Tucho è semplicemente insostenibile, sia da un punto di vista storico che dogmatico. Ed è pericolosa, perché di fatto permette che, in nome del magistero autentico, si possa dire tutto e il suo contrario.
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