Libano, una pace armata in attesa del peggio
Ascolta la versione audio dell'articolo
Per paura di attentati tutte le chiese sono pattugliate dall'esercito. Intanto a distanza di sette mesi dall'accordo per il cessate il fuoco le truppe israeliane e di Hezbollah non hanno ancora lasciato il Sud del Libano e la mediazione americana appare impotente.

Un'altra domenica è trascorsa a Beirut, senza gravi incidenti. Dal 22 giugno scorso, quando terroristi kamikaze hanno causato trenta vittime tra i fedeli della chiesa ortodossa di Sant'Elia, a Damasco, i soldati fuori dalle chiese durante la Messa sono una presenza fissa. I fondamentalisti dell'ISIS, o chi per loro, hanno minacciato esplicitamente i cristiani libanesi, dicendosi pronti a ripetere lo show in qualche chiesa beirutina; da allora il governo manda ogni domenica una coppia di soldati, di solito giovani nell'età della leva, a presidiare gli edifici di culto cristiani. Questa domenica, la terza di luglio, la Chiesa maronita ha ricordato Mar Charbel, il Santo monaco libanese noto per mettere pace tra cristiani, drusi e musulmani e per concedere grazie e miracoli a chi lo invoca, a prescindere dal credo religioso.
È strana la vista dei fucili spianati davanti alla chiesa. Eppure le armi, nascoste o esibite, sono l'ossessione di questo Paese dall'inizio della sua storia, recente e tormentata. Quelle di Hezbollah sono correntemente al centro del dibattito pubblico, e non a torto – prima del 7 ottobre 2023 la milizia sciita era considerata l'organizzazione non statale meglio armato al mondo - ma il Paese ne è pieno: data la facilità di reperimento, ogni famiglia, ogni comunità religiosa ne dispone, anche solo per deterrenza e difesa. Davanti all'ospedale pubblico di Geitawi, quartiere cristiano di Beirut, un cartello avverte che le armi non sono ammesse all'interno della struttura.
Che le armi in Libano non siano appannaggio unicamente di Hezbollah lo hanno dimostrato in questi giorni i tanti giovani sunniti che sono andati a combattere (e a morire) a Suwayda, al fianco delle milizie di Hayat Tahrir al Sham (HTS). Sono giovani che il risveglio del jihadismo in Siria ha spinto a manifestarsi e ad unirsi ad HTS nella lotta alle minoranze religiose. Foreign fighters a tutti gli effetti, sono andati a realizzare il sogno di combattere contro gli "infedeli", in quest'ultimo caso drusi, sogno difficile da attuare in un Paese tollerante e multiconfessionale com'è il Libano attuale. Vero è che i quindici anni di guerra civile hanno significato quindici anni di massacri interconfessionali, ma quell'epoca sembrava finita con la fine della guerra. E invece.
In queste ore si trova a Beirut per la terza volta Tom Barrack, l'inviato USA per il Medioriente, a chiedere nuovamente conto alle istituzioni libanesi del disarmo di Hezbollah. Il Presidente Aoun ha consegnato a Barrack un dossier contenente tutto ciò che il Libano ha fatto dal 27 novembre scorso per soddisfare le clausole del cessate il fuoco con Israele. All'uscita degli incontri istituzionali, Barrack ha detto ai giornalisti che il Presidente Trump desidera raggiungere «la stabilità della regione» e che il Libano «è al centro del processo». Ha aggiunto che gli Stati Uniti vogliono «sicurezza e prosperità economica per il Libano», ma allo stesso tempo non possono offrire garanzie circa Israele: «Non possiamo costringere Israele a fare niente», ha ammesso, sottolineando che l'accordo di cessate il fuoco tra Libano e Israele «non ha funzionato», e che per quanto riguarda gli USA «Hezbollah è un'organizzazione terroristica» il cui disarmo compete solo al Libano.
Riassumendo: malgrado il previsto ritiro le truppe di Israele sono ancora sul territorio libanese e continuano a causare quotidianamente vittime, per lo più civili, in giro per il Paese. Hezbollah non consegnerà le armi finché Israele non smetterà di attaccare il Libano - come ribadito dal leader della milizia sciita Naim Qassem alla vigilia dell'arrivo di Barrack a Beirut - e Israele non smetterà di attaccare finché Hezbollah non consegnerà le armi. Se lo stesso Barrack ammette che gli USA non sono in grado di esercitare pressioni su Israele e che il disarmo di Hezbollah è un affare interno al Libano, cui bono la mediazione americana?
Hezbollah ha davanti a sé diverse opzioni: consegnare le armi, entrare in guerra con Israele, oppure trasformarsi in braccio politico abbandonando la milizia. Tutte e tre le ipotesi sembrano al momento abbastanza improbabili. Il Libano si trova attualmente in una situazione paradossale: tutti lo amano, chi per un motivo e chi per un altro, e tutti concorrono a spingerlo sempre più in fondo ad un cul de sac.
Se non si trattasse di vite umane ci sarebbe da ridere per l'insensatezza della vicenda (già parlare di vittime mentre è in vigore un cessate il fuoco non dovrebbe avere alcun senso). Ma il Libano è "la commedia della morte", come fa dire a un personaggio del suo romanzo Specchi rotti lo scrittore libanese Elie Khouri: qui anche la vicenda peggiore è volta in burla, ma spesso la burla diventa mortale.
Libano e Siria: tra i piani di Israele e le minacce jihadiste
Gli USA esortano il governo libanese ad accettare la pace offerta da Israele (che continua ad attaccare) e disarmare Hezbollah. E lodano la cooperazione della “nuova Siria” – in mano ai jihadisti di HTS – con Tel Aviv. Anche nel Paese dei Cedri cresce la paura per l’estremismo islamico.
Beirut col fiato sospeso. Dopo Gaza, Israele può attaccare il Libano
Beirut, paura di una nuova guerra. L'inviato Usa, Tom Barrack, detta le condizioni per la ricostruzione, che coincidono con gli interessi israeliani. Hezbollah si oppone. E Netanyahu, sistemata Gaza, può riprendere l'offensiva anche in Libano.