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METODI ORWELLIANI

Lezioni sul femminicidio a Rep: l'Ordine non dice nulla?

Se i giornalisti di Repubblica sono giustamente infastiditi dal manuale-lezione della scrittrice Michela Murgia su come un giornalista deve raccontare i femminicidi, stupisce che l’Ordine non abbia preso le distanze da questo decalogo dal sapore orwelliano. 

Editoriali 03_10_2020

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Ciò che è accaduto a Repubblica ha davvero dell’incredibile ed è l’ennesima riprova che a volte la realtà supera di gran lunga la fantasia. L’ufficio centrale del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e ora diretto da Maurizio Molinari, ha fatto distribuire a tutti i giornalisti una sorta di decalogo su come affrontare il tema del femminicidio. Trattasi di una sorta di manualetto (“Come raccontare un femminicidio”) che i cronisti dovrebbero consultare prima di redigere un articolo di cronaca riguardante quell’argomento e che si divide plasticamente in due colonne.

Nella colonna “No” le frasi da non scrivere, in quella “Si” le frasi da usare. Per esempio, nella prima colonna figura il divieto di associare l’omicidio all’amore o alla famiglia ma anche quello di mettere nel titolo dell’articolo parole che evocano la fatalità e quello di empatizzare con l’omicida; nella seconda colonna si esorta il giornalista a chiarire che la malattia non è un movente né un alibi e a sottolineare che il carnefice non voleva lasciare libera la donna e per questo l’ha uccisa.

Questi comandamenti, un mix di ridicole ovvietà e imposizioni autoritarie, ricordano la scena cult di Sbatti il mostro in prima pagina. Nel film, diretto da Marco Bellocchio nel '72, il direttore di un grande quotidiano del nord, interpretato da Gian Maria Volontè, correggeva l'articolo del povero cronista Roveda, colpevole di essere stato troppo diretto nel raccontare il disperato gesto di un disoccupato calabrese padre di cinque figli che si era dato fuoco. Il poveretto diventava così un immigrato suicida rimasto senza lavoro...

I temi del vademecum sono stati redatti dal team social di Repubblica guidato dalla scrittrice sarda Michela Murgia che non è affatto nuova a boutade scioccamente femministe. Una per tutte: il tentativo di imporre il termine “matria” a discapito di patria.

I giornalisti di Repubblica giustamente non l’hanno presa bene e hanno affidato ad un comunicato ufficiale del Comitato di redazione il loro risentimento: «Riceviamo un decalogo su come si esercita la professione di ognuno di noi. Ferma restando, ovviamente, l’importanza dell’argomento non crediamo che i professionisti di un quotidiano che da oltre quarant’anni fa la storia del giornalismo italiano abbiano bisogno di decaloghi di sorta. A meno che non sia nelle intenzioni del giornale creare la figura di un vicedirettore addetto alla semantica». Il siluro è indirizzato proprio al direttore Molinari, la cui nomina, imposta da John Elkann, non è mai stata fino in fondo digerita, visto che il suo predecessore Carlo Verdelli era amatissimo dalla redazione. La Murgia è molto apprezzata da Molinari, che dunque ha approvato quel codice anti-femminicidio, senza minimamente preoccuparsi di condividerne i contenuti con la redazione.

Al di là della forte e stucchevole connotazione ideologica dell’iniziativa, il paradosso sta proprio nell’affidare a un soggetto esterno (una scrittrice) la definizione di principi deontologici da imporre ai giornalisti. Si presume che chi ha superato un esame di Stato per diventare giornalista professionista o comunque ha accumulato anni di esperienza come collaboratore e si è iscritto all’elenco dei giornalisti pubblicisti sia in grado di usare termini appropriati e uno stile equilibrato nel racconto di fatti delicati come un femminicidio. E’ comprensibile quindi che i giornalisti di Repubblica si siano sentiti offesi nella loro dignità professionale e anche nella loro libertà, perché comunque il decalogo di impronta “orwelliana” confezionato dal team social di Repubblica è impregnato di precetti fortemente lesivi dell’autonomia del giornalista. Che senso ha imporre al giornalista di “raccontare l’omicidio come un atto volontario e deliberato”, di “non far sembrare l’omicidio una conseguenza delle scelte della vittima” e di “non patologizzare il movente”?

Stando al delirante manualetto della Murgia, il femminicidio è sempre e comunque “una decisione del carnefice” e dunque non bisogna scrivere che la donna voleva lasciarlo e lui l’ha uccisa a coltellate, ma che la donna è stata “uccisa a coltellate dall’ex marito possessivo”. Poco importa se nel giornalismo, tanto più in quello di cronaca nera e in generale nel giornalismo d’inchiesta, l’individuazione del movente sia uno degli elementi qualificanti un’informazione completa e documentata.

Se i giornalisti di Repubblica sono dunque giustamente infastiditi da queste lezioncine della Murgia, stupisce che l’Ordine dei giornalisti non abbia preso le distanze da questo decalogo, che delegittima e svaluta la portata dei principi deontologici che governano il rapporto tra diritto di cronaca e tutela della personalità altrui. E poi perché sul femminicidio si e su altri temi delicati no? Il rischio è proprio che un’iniziativa del genere rappresenti un precedente per future iniziative aziendali e settoriali, che finirebbero per rendere sempre più relativo e incerto il rispetto delle regole professionali del giornalismo, sancite nel Testo unico della deontologia, che già obbliga i cronisti a raccontare con equilibrio omicidi e femminicidi.