L’eutanasia si batte con la speranza. La conferma dal Belgio
L’ultimo rapporto sull’eutanasia in Belgio mostra che nel 2020-21 sono state uccise ben 5.145 persone. A determinare la richiesta di farla finita non sono tanto le sofferenze fisiche quanto quelle psicologiche. Ciò conferma l’importanza di medicine come l’affetto, la vicinanza e soprattutto la luce e il senso che solo la fede possono dare. Una lezione anche per l’Italia.
In Italia esiste una legge, la 219/17, che permette di far accedere all’eutanasia tutti: adulti capaci di intendere e volere e incapaci, nonché minori. Per scoprire quali frutti questa legge nel futuro porterà nel nostro Paese, basta andare a vedere cosa accade in quei Paesi in cui le leggi sull’eutanasia sono vigenti da più tempo. Ad esempio in Belgio.
La Commissione Federale di Controllo e di Valutazione dell’Eutanasia ha di recente inviato al Parlamento belga il decimo rapporto sull’accesso a questa pratica. Nel biennio 2020-2021 sono state uccise tramite eutanasia ben 5.145 persone. Tra il 2020 e il 2021 c’è stato un incremento di più del 10%. Il trend è stato sempre in crescita: siamo passati infatti da 584 decessi nel 2003-2004, primo biennio di applicazione della legge, agli attuali 5.145.
I malati di cancro sono in pole position: sono infatti 3.262 i pazienti oncologici che hanno scelto di farla finita con il beneplacito dello Stato. Seguono 900 pazienti che erano affetti da plurime patologie, spesso patologie legate alla vecchiaia. 402 pazienti avevano disturbi del sistema nervoso. 94 persone sono state uccise per problemi psichiatrici: 49 erano affette da disturbi di origine cognitiva come la demenza, incluso l’Alzheimer; 45 erano affette da depressione, disturbi della personalità, stress post-traumatico, schizofrenia o autismo. Questi ultimi dati provano che lo slogan che qualifica l’eutanasia come suprema espressione della libertà della persona è assai falso, dato che spesso si uccidono delle persone incapaci di esprimere un consenso valido.
Inoltre 741 persone (il 14% del totale) hanno scelto l’eutanasia anche se il decesso non era per nulla imminente. Solo lo 0,6% ha chiesto di morire tramite Dat: uno strumento che si è dunque rivelato un flop. L’80% delle persone ha scelto di morire sia perché soffriva nel corpo che nella psiche. La maggior parte dei pazienti uccisi aveva un’età tra i 70 e i 90 anni. Nessun minore ha avuto accesso a questa pratica.
Ora, facendo riferimento sia al dato delle patologie più diffuse tra i richiedenti l’eutanasia - patologie oncologiche - sia a quello che vede le persone anziane la categoria che più massicciamente ha fatto ricorso a questa pratica, si scopre che, secondo il report, non sono tanto le sofferenze fisiche a determinare la scelta eutanasica, bensì quelle psicologiche che ovviamente trovano la loro genesi nella patologia. Se poi andiamo a considerare la seconda categoria di pazienti che più ha fatto ricorso all’eutanasia - pazienti anziani con pluripatologie legate all’età avanzata - ci si rende conto che non sono tanto le malattie in se stesse a spingere verso la soluzione finale, ma, ancora una volta, uno stato generale di depressione.
Così il report: “Per quanto riguarda la gravità della sofferenza psichica, le malattie ingravescenti legate all'età, tipicamente polipatologiche, portano sempre più in questi pazienti anziani decrementi fisici, psichici, cognitivi, psicosociali ed esistenziali. Tutto questo conduce ad una notevole sofferenza psichica, che si manifesta frequentemente con una stanchezza verso la vita. Molti di loro hanno pensieri suicidi perché non vedono un futuro che renda la loro vita degna di essere vissuta e perché la morte appare loro come una benedizione. […] Più della metà dei pazienti ha difficoltà a gestire la propria dipendenza da terzi, condizione che spesso va di pari passo con una perdita di autonomia che fa loro perdere il controllo dei restanti anni di vita. Più del 40% teme danni fisici in futuro a causa dell'evoluzione del deterioramento della propria condizione. La consapevolezza della natura disperata della loro situazione e l'inefficacia delle terapie e delle cure palliative nel controllare i sintomi rafforzano la sensazione che vivere non abbia senso”.
Il report quindi conferma un dato ormai noto: il problema al fondo della scelta di farla finita è di carattere psicologico e non fisiologico. Il dolore da curare non è in primis quello dei sensi, quello organico che ha già trovato una sua soluzione nelle cure palliative, bensì è quello dell’anima. Le vere medicine allora sono l’affetto, la vicinanza, la compartecipazione del dolore e soprattutto la speranza che scopre nel soffrire un senso trascendente e che accende una luce sulla vita dopo la morte. Ma per avere questo tipo di speranza occorre avere fede. Spenta quest’ultima, tutto precipita nel buio, tutto appare senza senso, talmente senza senso che l’eutanasia sembra l’unica via ragionevole perché elimina il peso di un’esistenza senza ormai più scopo, eliminando chi vive quell’esistenza. L’eutanasia allora risulta essere non un rimedio, ma la tappa finale di un percorso senza speranza, l’esito necessario di una prospettiva di vita nichilista.