L'eutanasia di tre bimbi belgi o la morte di David e Filippo?
In Belgio nell’anno 2016/2017 sono morti per eutanasia tre bambini. I numeri si moltiplicano anche per chi soffre di semplici acciacchi. Perché? Leggendo le storie di David, morto a 17 anni con il sorriso, o di Filippo, andato in Cielo a 8 accettando la sofferenza, si capisce che senza uno scopo per vivere non è più possibile vivere il sacrificio. Resta solo il benessere disperato.
«David si è donato per la salvezza eterna e la conversione dei giovani. Il suo corpo, che si stava disfacendo, lo ha donato fino alla fine, come in un martirio liberamente accettato», così disse il sacerdote durante l’omelia del funerale di un giovane, David, morto di cancro a 17 anni. Che differenza morire lieti con questa consapevolezza oppure offrendo le sofferenze dell’agonia a 8 anni, come ha fatto Filippo, sapendo di essere destinati al Paradiso. Una differenza enorme da un mondo che ormai uccide non più solo i terminali o gli anziani ma anche i suoi piccoli malati di cancro.
Sono i nuovi dati belgi sulle morti per eutanasia nell’anno 2016/2017 a rivelare che tre persone uccise erano minorenni, di cui non è dato sapere l’età precisa, affetti da cancro. Colpisce perché ovviamente questo non è il prodotto di una scelta libera di bambini o ragazzini, i quali normalmente lottano per vivere con una capacità di sopportare la sofferenza molto superiore a quella degli adulti, ma è frutto dello sguardo dei grandi. Angosciati dal male che può attanagliare un figlio. Ma così come queste morti sono il prodotto di un mondo che ha rifiutato Dio, e quindi il compito e il senso della vita che permette di sopportare il male come condizione temporanea per raggiungere la felicità eterna, anche David e Filippo sono frutto dello sguardo pieno di fede e speranza dei loro genitori.
Basti pensare al sorriso fatto prima di morire da David, deciso a seguire il sacerdote che gli svelò che poteva offrire la malattia a Dio, o all’agonia del piccolo Filippo e all’aiuto di sua madre Anna: «Mamma quando mi passa questo dolore?», domanda lui. Lei risponde: «Non lo so Filippo, l’unica cosa che so e che se non riesci a farlo passare, puoi fare un’altra cosa: offrilo a Gesù. Gesù è stato sulla croce per noi, anche per te. Con questo dolore che non passa tu stai completando il Suo, sulla croce. Non è inutile se lo regali a Lui». Filippo docilmente, forse sfinito annuisce.
Certo non è facile vivere così, ma è più umano e in grado di portare nella sofferenza luce e speranza, mentre in Belgio i numeri parlano di disperazione, di incapacità di accettare il minimo dolore, di odio per la vita quando non coincide con il piacere. Di vuoto. Oltre ai dati sui bambini, impressionano infatti quelli su anziani, malati mentali e giovani. Gente che si fa uccidere legalmente per ogni tipo di disturbo. Con numeri che si moltiplicano velocemente con il passare del tempo. Qui dove l’eutanasia è legale dal 2003 (per i minori dal 2014) nel 2016/2017 sono morte 4.337 persone, con un aumento di anno in anno del 14 per cento. Oltre ai minorenni sono stati uccisi da medici e personale sanitario 19 ragazzi fra i 18 e i 29 anni. Di questi 2.807 erano malati di cancro, mentre 2.781 avevano semplicemente problemi legati alla vecchiaia, come la perdita della vista. Ben 77 di loro soffriva di qualche disturbo psicologico o comportamentale, mentre solo la metà aveva superato i 70 anni. La commissione federale per il controllo dell’applicazione della legge sull’eutanasia, oltre ad aver ammesso la richiesta di un transessuale dopo l’operazione che mira (senza ovviamente riuscirci) al cambiamento di sesso, ha accettato la morte di persone sorde o con semplici acciacchi. Perché, aveva spiegato riferendosi alla vecchiaia nel 2016 il capo della commissione, Wim Distelmans, «vediamo sempre più persone incapaci di accettare questa condizione».
Ma il quadro a dir poco macabro è solo la conseguenza di quello che persino esperti o psichiatri non credenti lamentano, parlando dell’apatia e della problematicità di generazioni annoiate e incapaci di sopportare le frustrazioni, data l’unica preoccupazione della società del benessere ad evitare loro qualsiasi fastidio, sofferenza o divieto. Scrive su Vanity Fair nel febbraio del 2017 Elisabetta Amorosi, collaboratrice de Il Fatto Quotidiano: «La protezione ossessiva che esercitiamo nei loro confronti (dei figli, ndr), il terrore che possano vivere anche micro traumi e piccole frustrazioni, la rincorsa ad appagare ogni loro minimo desiderio, tutto questo non ne sta facendo bambini felici, ma – al contrario – bambini inadatti a vivere. Incapaci di sopportare limiti e regole…Piccoli “sdraiati”, già a cinque o sei anni, che si preparano a diventare preadolescenti e adolescenti incapaci di lottare per ottenere ciò che desiderano, visto che hanno tutto. Il desiderio, qualunque esperto di etica e psicologia lo sa, si forma solo attraverso, e contro, “no”: che devono essere forti, decisi». Come lo sono le realtà del limite o della malattia.
Anche lo psichiatra Paolo Crepet denuncia che «se tuo padre e tua madre non ti hanno mai detto un no da quando sei nato, il primo no che ti dice un esterno (o la realtà, ndr) non lo accetti. L'educazione è una fatica che nessuno è più disposto a fare…A forza di dire di sì tutto diventa grigio, si perdono i colori». Ora, come si evince dalle storie di Filippo e di David non è solo un problema di "sì" e "no", ma innanzitutto di una meta, un senso e uno scopo per cui vivere e sacrificarsi, il che presuppone, anche se forse questi sociologi e psicologi non possono dirlo, l’esistenza di un male e di un bene a cui aderire.
Quello per cui esistono persone che muoiono serene, sapendo che la vita è una missione e che va donata. Si può rifiutare teoricamente Dio, il bene, ma chi non preferirebbe vivere la malattia e anche la morte con speranza? Quale genitore non lo desidererebbe per il figlio? Quale malato non vorrebbe la gioia per sé? Piaccia o meno, è solo tramite l’educazione alla fede e al senso del sacrificio che salva, insieme all’abolizione di leggi che inducono in tentazione suicida chi sta soffrendo, che la “cultura della morte”, galoppante nell’Occidente “sazio ma disperato”, potrà essere vinta.