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ORA DI DOTTRINA / 81 – LA TRASCRIZIONE

L’elevazione degli angeli – Il testo del video

L’ordine soprannaturale e quello naturale sono distinti, ma non separati. Nell’angelo c’è un duplice ordine che porta con sé una duplice beatitudine. Fu creato beato, ma nell’ordine della natura. Il suo fine: la beatitudine soprannaturale.

Catechismo 10_09_2023

Proseguiamo i nostri incontri di riflessione sugli angeli. Fino adesso abbiamo fatto tutto un itinerario che riguarda soprattutto la natura angelica: come gli angeli conoscono, come vogliono. L’ultima volta abbiamo visto la questione di quando sono stati creati gli angeli.

Oggi iniziamo invece a capire la loro elevazione allo stato soprannaturale. Perché Dio – nel suo immenso amore, nel suo immenso desiderio di comunicarsi e di chiamare alla comunione con Sé, una comunione di vita, di conoscenza, di affetto, di volontà, le creature libere – ha in qualche modo voluto elargire loro, agli angeli e agli uomini, la grazia santificante. Perché?

Facciamo una piccola parentesi prima di entrare nella quæstio 62 della prima parte della Summa Theologiæ. È un piccolo ripasso o chiarimento su questi due ordini, cioè l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale, che troviamo negli uomini e negli angeli. Ora, senza voler sviscerare tutta la questione che è piuttosto complessa e ha conosciuto e conosce tuttora diversi scontri di posizioni, teniamo alcuni punti fermi: questi due ordini, cioè l’ordine soprannaturale e quello naturale, sono due ordini distinti. Cosa vuol dire che sono distinti? Vuol dire che la natura, umana o angelica, non ha in sé un’esigenza dovuta di ciò che la supera. Vuol dire che la natura umana o angelica ha in sé un ordine. E l’elemento soprannaturale non è, per così dire, richiesto dalla natura umana come appunto se gli fosse dovuto, come se la mancanza dell’elemento soprannaturale costituisse un male per la natura o un’ingiustizia per la natura. Sono due ordini distinti: non possiamo dire che la natura abbia un’esigenza stretta, stricto sensu, della dimensione soprannaturale, che appunto non le è propriamente dovuta; Dio non deve la vita della grazia all’uomo o all’angelo secondo una giustizia.

Tuttavia non sono due ordini separati e neppure semplicemente giustapposti, come se fossero “affiancati” ma non comunicanti. La dimensione soprannaturale non è propriamente un’aggiunta estrinseca, cioè non possiamo parlare della vita soprannaturale semplicemente come quella di un libro o di un soprammobile appoggiato su un ripiano. Sono quindi due ordini distinti, ma – usiamo un termine un po’ più tecnico – la vita soprannaturale, l’elemento soprannaturale, rispetto alla natura, ha un’alta “convenienza”, ossia non propriamente una necessità ma nemmeno è puramente superflua: c’è invece un’alta convenienza dell’uno con l’altra, c’è un intreccio. Questo detto molto in generale, ci sono questioni più tecniche che magari richiederebbero un incontro, più che di catechesi, di indagine teologica.

San Tommaso riconosce che anche nell’angelo c’è un duplice ordine che porta con sé una duplice beatitudine. Lo vediamo, come anticipato, nella quæstio 62 della prima parte della Summa. Dice san Tommaso: «Si deve perciò concludere che l’angelo fu creato beato, se per beatitudine si intende quella che egli può conseguire con le capacità naturali» (ST I, q. 62, a. 1). Cioè, c’è una beatitudine della natura angelica e, in questo senso, l’angelo è creato beato: abbiamo già visto che l’angelo non deve avviare in qualche modo un percorso di perfezionamento della propria natura, come invece avviene per noi uomini, che dobbiamo perfezionare il nostro intelletto con la conoscenza, la nostra volontà con le virtù; c’è un percorso, un iter, che dovrebbe essere di perfezionamento di potenzialità che abbiamo ricevuto. L’angelo, invece, dice san Tommaso, è «creato beato», dal punto di vista della sua natura. Perché? Perché non acquista la sua perfezione in fieri, cioè attraverso appunto un divenire di perfezionamento delle sue facoltà, come invece avviene per noi.

Però, precisa san Tommaso: «La beatitudine suprema, invece, che supera le capacità della natura [soprannaturale], gli angeli non l’ebbero nel primo istante della loro creazione: poiché tale beatitudine non fa parte della natura, ma ne è il fine» (ibidem). Questa frase è importante. L’elemento soprannaturale o la beatitudine suprema, la beatitudine soprannaturale, in quanto soprannaturale, non fa parte della natura, e quindi non è stata data agli angeli con quella pienezza di natura che hanno avuto nel momento della loro creazione, di cui abbiamo già parlato: ma essa «ne è il fine». Quindi vuol dire che tra la beatitudine naturale e la beatitudine soprannaturale c’è un “percorso”, c’è un salto da compiere. Se la beatitudine suprema è il fine della beatitudine naturale, la quale è un bene che è ordinato ad altro, allora capiamo che la sopra-natura non è semplicemente giustapposta alla natura, ma in qualche modo la attrae a sé come un fine attrae le cose a sé.

A noi interessa soprattutto questo: nell’angelo c’è una duplice beatitudine, che corrisponde a una duplice dimensione, quella naturale e quella soprannaturale. Per raggiungere questa beatitudine superiore, suprema, l’angelo, come l’uomo, ha bisogno della grazia, perché ovviamente l’angelo, pur essendo superiore all’uomo, non è Dio. Dunque, il ragionamento che fa san Tommaso è che l’angelo ha bisogno che Dio stesso lo renda partecipe della sua natura divina; e quindi che l’uomo o l’angelo elevi le sue facoltà, la volontà e l’intelletto, rispettivamente con la fede e con la carità, perché altrimenti, per sua natura, l’uomo e l’angelo non possono raggiungere questo fine, anche se sono ordinati a questo fine. Per raggiungere il fine supremo, che non è dovuto alla natura, come abbiamo detto, e a cui tuttavia l’uomo e l’angelo sono ordinati, ecco che hanno bisogno della grazia, di questa infusione intrinseca che eleva l’uomo, lo rende capace della beatitudine suprema. E la grazia, come dice la parola stessa, non è meritata. La grazia è appunto data gratuitamente da Dio. Avremo poi modo di vedere tutto il discorso della grazia, della giustificazione nell’uomo.

Nell’articolo 2 della quæstio 62, san Tommaso esplicita: «Per volgersi a Dio, in quanto è oggetto della beatitudine, gli angeli ebbero bisogno della grazia» (ST I, q. 62, a. 2), come gli uomini. È impossibile per qualsiasi creatura elevarsi a Dio se Dio stesso non le partecipa la grazia, non la eleva; anche qui non in modo estrinseco, come un ascensore, ma elevando le facoltà interne dell’uomo e dell’angelo. Infatti, «abbiamo spiegato che il moto naturale della volontà è il principio di tutti i nostri voleri. Ma l’inclinazione naturale della volontà si porta verso oggetti proporzionati alla natura» (ibidem); la volontà si inclina verso ciò che le è proporzionato, in base alla natura, e lo stesso vale per l’intelletto. «Se vi sono perciò delle cose superiori alla natura, la volontà non può portarsi verso di esse, senza essere aiutata da un principio soprannaturale. (…) Nessuna creatura razionale può avere un atto della volontà proporzionato a quella beatitudine senza la mozione di una causa soprannaturale» (ibidem). C’è bisogno di una causa soprannaturale che spinga, attragga, elevi la volontà, l’intelletto dell’uomo e dell’angelo al di sopra della propria natura,  anche se mai contro, ma sempre conforme al suo modo naturale; non viene stravolta né distrutta la natura, però viene sopraelevata. Diversamente, questa beatitudine suprema, questo fine soprannaturale verrebbe desiderato, atteso, ma non raggiunto.

Ora, una domanda che ha fatto scorrere molto inchiostro: gli angeli quando hanno ricevuto questa grazia? Qui abbiamo due posizioni, entrambe legittime, un po’ come nella lezione scorsa, quando avevamo visto due posizioni legittime quanto alla creazione degli angeli in rapporto al mondo corporeo.

Qui abbiamo di nuovo due posizioni che di per sé sono legittime: abbracciare l’una e negare l’altra non comporta eresia, dice san Tommaso. Le troviamo nel tema trattato nell’articolo 3 della quæstio 62. «Sebbene siano diverse le opinioni intorno al nostro quesito [cioè, se gli angeli siano stati creati in grazia], dicendo alcuni che gli angeli furono creati nella pura natura [in puris naturalibus] e asserendo invece altri che furono creati in grazia, sembra che si debba ritenere come più probabile e più conforme alla dottrina dei santi che gli angeli furono creati in possesso della grazia abituale» (ST I, q. 62, a. 3). Abbiamo dunque queste due posizioni sugli angeli: sono stati creati nella loro pura natura e quindi elevati in grazia in un secondo momento, successivamente; oppure sono stati creati nella loro natura già “elevata”.

La spiegazione è un po’ elaborata, ma prendiamo la risposta alla terza obiezione che è quella che riassume un po’ meglio la questione. Dice san Tommaso: «Seguendo l’ordine ontologico poniamo la grazia tra la natura e la gloria» (ibidem). Cosa vuol dire? Abbiamo la natura, in questo caso dell’angelo, la gloria, cioè il possesso beato, la beatitudine suprema raggiunta; e la grazia si “mette in mezzo”, perché eleva la natura e la rende capace di possedere la gloria, di godere di questa gloria. In questo senso, Tommaso dice che la grazia la poniamo ontologicamente tra la natura e la gloria. «Se però consideriamo l’ordine cronologico, vediamo che la gloria non doveva trovarsi insieme con la natura creata, perché la gloria è il fine dell’operazione della natura aiutata dalla grazia» (ibidem). In sostanza, Tommaso dice che non è possibile che l’angelo sia stato creato in gloria, non solo già con la beatitudine naturale perfetta, ma anche con la beatitudine suprema già perfetta, perché la gloria è il fine. Ma il fine di che cosa? È il fine di quegli atti, di quelle operazioni che la natura – angelica in questo caso – aiutata, sostenuta, informata dalla grazia, compie per raggiungere la gloria. Quindi, la gloria non può essere “incorporata” alla natura, perché è il fine raggiunto dalla natura sopraelevata dalla grazia.

Continua san Tommaso: «La grazia invece non è il fine dell’operazione, poiché essa non si acquista con le opere, ma è il principio del bene operare. Era perciò conveniente che agli angeli la grazia venisse data subito insieme con la natura» (ibidem). Il fine dell’operazione è la gloria. Quindi: natura – fine (la gloria) – e la grazia è in mezzo. Tommaso dice che la grazia non è il fine dell’operazione della natura. Questo fine sopraelevato è la gloria, la beatitudine suprema. La grazia non è il fine e non si raggiunge con le opere, come la gloria. La gloria si raggiunge, come vedremo, per un merito e spiegheremo che cos’è questo merito, per non cadere in errori contrapposti.

Allora la grazia che cos’è? La grazia è il principio del bene operare, cioè quel principio che permette di operare per raggiungere la gloria. Allora Tommaso dice che era conveniente – non necessario, tant’è vero che san Tommaso dice che era possibile anche l’altra posizione, sebbene lui sposi questa – che agli angeli la grazia venisse data da subito insieme alla natura. Perché gli angeli hanno una natura perfetta nel momento della creazione. E con la loro creazione possono partire subito, per così dire, verso il raggiungimento della gloria. Questa è un po’ l’argomentazione che dà san Tommaso. Gli angeli sono stati creati in una beatitudine naturale, non nella beatitudine suprema, non sono in uno stato di gloria quando vengono creati, la gloria è il fine della grazia, ma il suo raggiungimento richiede anche il merito. Mentre la grazia viene data gratuitamente, non richiede un merito, invece la grazia è il principio di un’operazione che genera il merito per raggiungere il fine. 

In questo senso possiamo dire che l’angelo è creato, in un certo modo, in statu viae: cioè, non quanto alla natura, che è già perfetta, ma quanto al raggiungimento della gloria, anche lui è stato un viatore, quindi la grazia è divenuta in lui un principio: di che cosa? Di merito. Ma non ha sostituito il merito. L’angelo stesso ha dovuto porre un’operazione, sostenuta dalla grazia, orientata e sopraelevata dalla grazia, per raggiungere la gloria. Questo è un po’ lo schema da tenere a mente.

Noi possiamo raggiungere un fine in due modi. In un primo modo, siamo noi la causa del fine e questo avviene chiaramente per tutto quello che è proporzionato alla nostra natura. Per esempio, io sono la causa della mia sussistenza nel momento in cui pianto un’insalata, la taglio e la mangio; oppure prendo una medicina per recuperare la salute, quindi sono cause proporzionate alla mia natura: io pongo in atto degli atti che causano il fine che io voglio raggiungere. C’è invece un fine che supera le mie forze, supera le mie capacità. E questo non lo posso raggiungere causandolo. Il principio di causalità implica che una cosa può causare qualcos’altro, non secondo la natura che le è propria, secondo qualcosa che eccede la sua natura. Un cagnolino non può causare un atto propriamente di raziocinio, come svolgere un’equazione.

Allora, come posso raggiungere un fine che supera le mie forze? Attraverso un merito. Facciamo un esempio. Uno studente squattrinato vuole fare un viaggio importante che è totalmente al di sopra delle sue forze economiche. Che cosa fa? Chiede ai genitori di sponsorizzare. Ma come fa? Cerca di meritare in qualche modo. Si presta a fare dei servizi, qualche cosa. Un merito che in fondo non è proporzionato, ma è pur sempre un merito, cioè si dispone per poter raggiungere quel fine che qualcun altro gli deve far raggiungere perché non è nelle sue facoltà economiche, in questo caso.

Torniamo adesso alla grazia, alla natura e sopra-natura. Meritare propriamente significa esercitare una causalità morale meritoria. Non è una causalità del tipo “io pongo il fine, lo raggiungo con le mie forze perché è conforme alla mia natura, alle mie capacità”: non è questo. Ma è pur sempre un porre qualche cosa; non è un puro far nulla, un puro ricevere: il merito implica qualche cosa che tu fai.

Perché Dio sceglie di salvare gli uomini, di elevarli tramite un merito? Gli dà una grazia senza un merito, ma questa grazia è principio di un’operazione, con la quale è veramente lui ad agire, elevato, sostenuto dalla grazia, ma agisce con le sue facoltà. Non è un’ipnosi. Dunque, ponendo questi atti, l’uomo esercita una causalità meritoria, grazie alla quale Dio gli permette di raggiungere quel fine che egli raggiunge tramite la grazia di Dio e le sue operazioni, di cui la grazia diventa un principio nuovo, senza il quale non sarebbe possibile orientarsi a questo fine. In pratica, il principio del merito significa che Dio vuole donarci la sua grazia, ma questa grazia ci rende in qualche modo cause attive, partecipi, non puramente passive. C’è un primo momento che è passivo, recettivo. Ma questo momento recettivo non rimane passivo, ma genera le azioni proprie della grazia che diventano così meritorie.

Perché è importante dire questo? Perché ci permette di capire la distanza tra la grazia e la gloria. La grazia è il principio di quelle operazioni meritorie che permettono di raggiungere la gloria. Dunque, mentre può non esserci distanza tra la natura e la grazia – nulla impedisce che una creatura venga creata, nella sua natura, già elevata in grazia –, questo non può avvenire per quel che riguarda la gloria: una creatura non può essere creata in gloria, perché mancherebbe di questo passaggio propriamente meritorio.

Nell’articolo 5 della quæstio 62, san Tommaso fa una precisazione. Abbiamo detto che gli angeli hanno avuto bisogno della grazia; questa grazia, molto probabilmente, gli è stata data già nell’atto di creazione; hanno dovuto meritare per raggiungere la gloria, come noi. E Tommaso, in questo articolo, fa una precisazione che è esclusiva per l’angelo; cioè, l’angelo ha avuto bisogno di un unico atto meritorio, non di una serie di atti meritori, com’è invece nel caso nostro. «L’angelo fu subito beato dopo il primo atto di carità, col quale meritò la beatitudine. E la ragione di ciò sta nel fatto che la grazia perfeziona la natura, secondo il modo di essere della natura stessa: come del resto ogni perfezione è ricevuta in un soggetto secondo la natura del soggetto medesimo» (ST I, q. 62, a. 5).

L’abbiamo visto: la grazia non distrugge, non muta, non stravolge la natura, ma la porta a compimento, la perfeziona, secondo il suo modo proprio. Ricordiamo il proprio della natura angelica, cioè il fatto di non dover acquistare la perfezione naturale per mezzo di un processo, ma è un dato immediato, in qualche modo, nel senso che l’angelo è creato in una beatitudine naturale. E dunque, spiega san Tommaso: «l’angelo, come dice ordine alla perfezione naturale in forza della sua natura, così dice ordine alla gloria in forza del merito. E così l’angelo dovette conseguire la beatitudine subito dopo il merito» (ibidem).

Nella soluzione alla prima difficoltà, san Tommaso afferma: «L’uomo per natura non è ordinato come l’angelo ad acquistare subito l’ultima perfezione. Così all’uomo viene concessa, per meritare, una via più lunga che all’angelo» (ibidem). Perché è una natura diversa: la natura umana è una natura discorsiva. Pensate a questo aspetto, che è quello più facile da capire, di come conosce l’uomo e di come conosce l’angelo: l’uomo conosce per esperienze, ragionamenti, connessioni di predicati e soggetti, secondo un processo; l’angelo conosce intuitivamente. Quindi, l’uomo è orientato anche lui, come l’angelo, ad acquisire la sua ultima perfezione, anche lui ha bisogno della grazia e anche lui lo deve fare tramite il merito: ma l’uomo, conformemente alla sua natura, che è discorsiva; l’angelo, conformemente alla propria natura, che invece è, diciamo così, immediata.

Nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso insiste: «È proprio della natura dell’angelo conseguire subito la perfezione cui è ordinato. E così non si richiede che un solo atto meritorio, il quale può essere detto intermedio, in quanto l’angelo è ordinato alla beatitudine in forza di esso» (ibidem). Cioè, la beatitudine suprema non può essere data insieme alla beatitudine naturale. Perché? Perché, come abbiamo visto, mancherebbe il principio del merito. Facciamo questo parallelo: come per natura l’angelo consegue subito la sua perfezione naturale, così per grazia e dunque per merito l’angelo raggiunge la sua perfezione, secondo quello che abbiamo detto prima. La grazia è principio di un atto, non è il fine dell’atto. Posto questo atto, l’angelo raggiunge la sua perfezione: cioè, in soldoni, l’angelo ha bisogno di un solo atto meritorio per conseguire la sua beatitudine. Possiamo dire che la storia della salvezza dell’angelo, in qualche modo, è fatta di due istanti: l’istante del merito, dell’atto meritorio, e l’istante della ricompensa.

Passiamo all’articolo 8, nel quale san Tommaso si chiede se l’angelo beato possa peccare. Allora, la possibilità per l’angelo di peccare, che poi è divenuta realtà per alcuni angeli, dove si pone? Non si pone nella natura, non si pone nella gloria, si pone in questo passaggio dell’atto meritorio, nell’atto in cui l’angelo sceglie, sorretto dalla grazia, di orientarsi a Dio. Lui che adesso, in virtù della grazia, può raggiungere quel fine, lo vuole anche raggiungere, si determina per raggiungerlo; questo è un atto suo, sollecitato dalla grazia, ma è suo. È lì che l’angelo può invece non rivolgersi a Dio; in quell’istante l’angelo ha potuto peccare, ma è chiaro che una volta beati, una volta conseguita la beatitudine [soprannaturale], gli angeli non possono più peccare.

Leggiamo l’articolo 8 per una ragione che ora vedremo. Anzitutto la tesi fondamentale di Tommaso: «Gli angeli beati non possono peccare. La ragione di ciò sta nel fatto che la loro beatitudine consiste nel vedere Dio nella di lui essenza. Ora, l’essenza di Dio è l’essenza stessa della bontà» (ST I, q. 62, a. 8). Dio è il bene: vedere Dio, raggiungere Dio è raggiungere tutto il bene, non c’è più nulla, non esistono altri beni. «Quindi, l’angelo che vede Dio si trova rispetto a Lui nella stessa condizione in cui si trova chiunque altro rispetto alla ragione comune di bene quando non ha tale visione. Ma è impossibile che uno voglia o che faccia qualsiasi cosa senza mirare al bene; o che voglia fuggire il bene, proprio in quanto bene. Quindi, l’angelo beato non può volere  o compiere nulla senza mirare a Dio. Ma chi vuole e agisce in tal modo non può peccare» (ibidem). In sostanza, la visione dell’essenza di Dio riempie completamente la prospettiva di bene dell’angelo. Una volta che si vede Dio non è più possibile peccare, perché non c’è più la possibilità di scegliere altri beni, che possono essere in disordine, che possono essere beni apparenti. Dio colma completamente questa aspirazione, questa tensione dell’uomo al bene, perché è il bene sommo, il bene universale, esaurisce tutto il bene possibile.

Chiudiamo con la risposta che Tommaso dà alla terza obiezione. Quando gli angeli diventano beati perdono allora il libero arbitrio e quindi “decadono” dalla loro natura, che fa sì che loro abbiano come noi il libero arbitrio? Cioè, se conservano il loro libero arbitrio, devono poter continuare a scegliere tra il bene e il male: questa obiezione è interessante perché riflette quella che è diventata ormai quasi l’unica concezione moderna del libero arbitrio, cioè la libertà di fare quello che voglio, il bene o il male. Come risponde san Tommaso? Leggiamo con attenzione: «Il poter scegliere cose diverse senza perdere di vista il fine, deriva dalla perfezione del libero arbitrio; mentre scegliere qualche cosa perdendo di vista il fine col peccato, deriva da una deficienza della libertà. C’è quindi maggiore libertà negli angeli che non possono peccare, che non in noi che possiamo peccare» (ibidem). Cioè, san Tommaso dice che la libertà non è scegliere il bene o il male, questa è una forma imperfetta della volontà. Il perché lo ha spiegato: «poter scegliere cose diverse senza perdere di vista il fine» è una «perfezione del libero arbitrio». Invece, scegliere cose diverse «perdendo di vista il fine» col peccato è un’imperfezione del libero arbitrio.

E dunque il peccato è una deficienza della libertà, è un’imperfezione della libertà. Quindi, gli angeli nella loro beatitudine – analogamente ai beati, ai santi in Paradiso – che non possono più peccare, non sono meno liberi. Noi pensiamo così: “Non posso più peccare, faccio una cosa in meno”: no, perché quella è un’imperfezione. Se non puoi più peccare, vuol dire che non perdi più di vista il fine, hai raggiunto il fine della tua vita e quindi il tuo libero arbitrio non è finito, ma esplode all’ennesima potenza nella sua perfezione. Infatti, Tommaso dice che «c’è maggiore libertà negli angeli che non possono peccare, che non in noi che possiamo peccare».

Non siamo maggiormente liberi noi perché possiamo peccare, mentre loro, poverini, non possono più peccare: è esattamente il contrario. Questa riflessione è importante perché ci fa capire come noi concepiamo la libertà in modo completamente rovesciato. La libertà raggiunge la sua perfezione precisamente quando non perde più di vista il fine della perfezione [Dio]; non lo può più fare e quindi è più perfetta.

La prossima volta vedremo un argomento un po’ più doloroso, che è la caduta degli angeli, la depravazione degli angeli. Ci faremo aiutare anche questa volta dalla Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino.

Per domande sull’Ora di dottrina potete scrivere a eventi@lanuovabq.it



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