Lega a un bivio, tra fedeltà al governo e ritorno alle origini padane
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Con l’emorragia di voti degli ultimi anni, nel Carroccio i nodi sono venuti al pettine: l'elezione di Romeo a segretario della Lega Lombarda e le critiche di Fontana e Castelli, Salvini si avvicina ad una fase congressuale piena di incognite. E le gatte da pelare sono anche per la Meloni.
Se un partito che è nato per difendere gli interessi del nord e per combattere il centralismo statalista, si snatura e si piega a quelle che ha sempre definito “le logiche romane”, è inevitabile che finisca per perdere consensi e credibilità. E’ quanto è successo alla Lega di Matteo Salvini, che è diventato un partito nazionale, raggiungendo e superando il 30% dei consensi tra il 2018 e il 2019, ma che ora è sceso sotto il 10% e deve fare i conti con il montante malcontento dei suoi elettori settentrionali.
Le ragioni fondative del partito di Umberto Bossi erano quelle della lotta alle rendite clientelari e parassitarie che si annidavano soprattutto al sud, attraverso l’introduzione di un’autonomia organizzativa e gestionale che consentisse al nord di tutelare e valorizzare le proprie risorse e al resto d’Italia di ripensare il suo sviluppo mediante un sistema meritocratico e non più fondato sulle provvidenze statali a pioggia.
D’altra parte la competitività dell’Italia dipende essenzialmente dall’economia del nord, che traina l’intero Paese e gli consente di non soccombere sulla scena europea e internazionale. Ma se il nord è la locomotiva del Paese, occorre sostenerla e consentirle di dispiegare appieno le sue potenzialità. Con l’elefantiasi burocratica tipica dello statalismo e con la zavorra delle clientele parassitarie del sud tutto questo si è però rivelato impossibile. Dapprima la Democrazia cristiana, poi Forza Italia e da ultimo il Movimento Cinque Stelle hanno alimentato il sistema delle rendite assistenzialiste del sud, che hanno frenato la crescita nazionale. Tuttavia, anche la Lega, per coltivare le ambizioni di premiership di Matteo Salvini (non a caso nel simbolo della Lega c’è ancora la scritta “Salvini premier”), si è convertita a queste logiche e ha smarrito nel tempo la sua natura di forza territoriale per inseguire il consenso anche al sud. Risultato: al sud non ha sfondato perché sopraffatta dalle forze centraliste e stataliste (oggi anche Fratelli d’Italia), mentre al nord ha perso voti e credibilità perché gli elettori lombardi, veneti, piemontesi, emiliano-romagnoli, friulani si sono sentiti presi in giro.
Con l’emorragia di voti degli ultimi anni, nel Carroccio i nodi sono venuti al pettine. Il capogruppo dei senatori Massimiliano Romeo è stato eletto nei giorni scorsi segretario della Lega Lombarda e al Capitano non le ha mandate a dire. «Matteo, sai che sono sempre stato leale con te, se non parliamo più del Nord, al Nord i voti non li prendiamo più», ha scandito dal palco del congresso. E i 370 delegati lo hanno applaudito convintamente.
Ma la tensione negli ambienti leghisti è alle stelle e gli strali nei confronti di Salvini arrivano anche dal presidente della Regione Lombardia Fontana: «Se continuiamo a dire che va tutto bene, nascondiamo qualcosa. Ci sono tante cose che vanno bene, ma anche altre che non vanno bene. Io qui sono a combattere a favore della Lombardia e a favore del Nord. Tutto il resto non mi interessa». Il governatore lombardo, intervenendo al Congresso della Lega lombarda, ha rispolverato parole e concetti delle origini ed è andato dritto al nocciolo della questione, cioè l’autonomia differenziata. «La dobbiamo avere come diciamo noi – ha chiarito - non con i lacci e lacciuoli che ci vogliono imporre da Roma. Torniamo a parlare di federalismo, torniamo anche a parlare di Padania Libera, se è il caso. Dobbiamo far capire a Roma che la Lombardia sta ancora tirando il carretto per conto del Paese. Oltre un certo limite non siamo disposti ad andare, non siamo più disposti a subire certe prevaricazioni che ci arrivano da Roma».
L’impressione è che Fontana si renda conto delle difficoltà crescenti che incontra il disegno autonomista, visto che la Lega di Salvini punta a prendere voti anche al sud, accettando compromessi al ribasso, e considerato il fatto che Fratelli d’Italia e Forza Italia in alcune aree del sud sono molto forti e dunque risultano condizionati nell’appoggio all’autonomia. Non a caso gli azzurri e alcuni meloniani hanno ultimamente frenato sull’autonomia, senza spingerla come si erano impegnati a fare in campagna elettorale. Fontana si è infine detto d’accordo con la linea di Massimiliano Romeo di sindacato del territorio, visto che la Lega è sempre stato un partito legato ai territori.
Nel dibattito sulla necessità di una correzione di rotta da parte della Lega di Salvini si inserisce anche l’ex ministro della giustizia, Roberto Castelli, leghista della prima ora e, da un anno e mezzo, leader e fondatore del Partito popolare del nord. Assieme ad altre formazioni federaliste e indipendentiste deluse dalla Lega, ha aderito al Patto per il nord. Castelli ha criticato Salvini per non aver ascoltato le ragioni del nord produttivo, che invoca autonomia e lotta agli sprechi e alle rendite parassitarie, e ha evidenziato un dato anagrafico da non sottovalutare. «Nella Corte Costituzionale - ha detto - su 14 giudici 12 sono nati da Roma in giù. Sarà mica un caso che non vogliono l’autonomia?».
Queste spaccature nella Lega sono destinate ad accentuarsi nel 2025, quando lo stesso Salvini dovrà affrontare un congresso per essere riconfermato alla guida del Carroccio. Visto che la pattuglia di parlamentari del Carroccio in questa legislatura è numericamente decisiva per le sorti del governo, non vanno esclusi scossoni sul quadro politico. Senza autonomia la Lega si sfarina, ma con l’autonomia il governo potrebbe entrare in crisi perché molti parlamentari e amministratori locali di centrodestra del sud non la vogliono. Una bella gatta da pelare per Meloni e i suoi.