Le scorribande degli ultraortodossi e le difficoltà di Netanyahu
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Proseguono le scorrerie degli ebrei ultraortodossi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il governo guidato da Netanyahu non fa nulla per bloccarle. E il premier vive un momento politico difficile su più fronti.
Si spostano indisturbati attraverso buona parte della Cisgiordania. Sono certi, infatti, che nessuno li fermerà nelle loro scorribande, sia di giorno che in piena notte. Sono gli ebrei ultraortodossi, che da quando è iniziata la guerra tra Israele e i miliziani di Hamas, nella Striscia di Gaza, compiono quotidianamente irruzioni, scorrerie contro i palestinesi.
Il governo guidato da Benjamin Netanyahu non fa nulla per bloccare queste scorribande. Anzi, qualche ministro dell’estrema destra le difende. Ma qualcosa, però, inizia a muoversi a livello internazionale. Lo scorso mese di febbraio, l’Amministrazione statunitense, e non solo, ha compiuto un passo storico, imponendo sanzioni contro quattro coloni coinvolti in azioni violente in Cisgiordania. A seguito di questi provvedimenti, i quattro non potranno operare nel sistema finanziario americano, saranno loro negati i visti d’entrata negli Stati Uniti e i loro eventuali beni nel Paese saranno congelati; inoltre, ai cittadini statunitensi è vietato entrare in affari con queste persone. «La violenza dei coloni israeliani è una minaccia alla pace», ha detto recentemente il presidente Joe Biden. Ma basteranno queste disposizioni?
Immediata la reazione del primo ministro israeliano: «Non c'è motivo – ha commentato – di adottare misure straordinarie. La maggioranza assoluta dei residenti della Giudea-Samaria», così gli ebrei chiamano la Cisgiordania, «è composta da cittadini rispettosi della legge». E ha aggiunto, giustificando soprusi e violenze: «In questi giorni i residenti della Giudea-Samaria sono impegnati nella difesa di Israele». Netanyahu ha inoltre ricordato che la nazione ebraica punisce chiunque infranga la legge e in ogni luogo. Ma a dispetto di quanto sostiene il primo ministro, le azioni violente contro i palestinesi proseguono a ritmo serrato. Non solo da parte dei coloni, ma anche dell'esercito. È di questi giorni la notizia che soldati israeliani abbiano distrutto dei terreni agricoli e sradicato oltre quattrocento piccole piante di ulivo nel villaggio di Wadi Fukin, a ovest di Betlemme. Ibrahim al-Haroub, capo del consiglio del paese, ha denunciato che le forze di occupazione hanno preso d'assalto l'area di Abu Siaj, vicino all'insediamento israeliano di Tzur Hadassah – edificato illegalmente su proprietà palestinese – devastando circa dieci acri (quattro ettari) di terreno. Gli attacchi israeliani nel territorio della Cisgiordania si sono intensificati dopo il 7 ottobre, con coloni e soldati che hanno compiuto atti di vandalismo, demolizioni e sradicato numerose piante con mezzi pesanti. Lunedì scorso i coloni hanno creato un nuovo avamposto nell'area di al-Ma'rajat, a nord-ovest di Gerico. Il distaccamento si trova a cento metri ad est della scuola elementare araba di al-Kaabna, nell'area di al-Marajat e tutto ciò è avvenuto sotto gli occhi dei militari con la Stella di Davide.
Che gli ebrei ultraortodossi vogliano occupare territori palestinesi non è un mistero, e probabilmente questo fa parte di un progetto studiato a tavolino. Infatti, solamente dopo poche ore dalla “Strage del pane”, avvenuta negli scorsi giorni nel nord di Gaza, dove sono stati uccisi 112 palestinesi e altri 760 sono rimasti feriti, circa 200 coloni ed estremisti della destra israeliana allestivano un loro avamposto all’interno della Striscia. L'intento era chiaro: riappropriarsi del terreno che hanno dovuto abbandonare nel 2005 per ordine dello scomparso premier Ariel Sharon.
Un gruppo di coloni ha superato il confine ed è entrato per alcune centinaia di metri nel territorio di Gaza. Altri hanno invaso l'area tra i due muri che delimitano lo sbarramento della Striscia e hanno iniziato a costruire due strutture utilizzando i materiali che avevano portato con loro: assi, pali di legno e lamiere di ferro per i tetti. Avevano già pronto un cartello con l’indicazione: Nuovo Nisanit, dal nome di uno degli insediamenti evacuati nel 2005. Solo successivamente sono intervenuti i militari per allontanarli, e nel momento in cui sono rientrati in territorio israeliano sono stati accolti dagli applausi di quanti seguivano la scena al di là del confine, tra le grida: «È tutto nostro».
In questo clima di tensione e di guerra, l’esecutivo di estrema destra, guidato da Netanyahu, ha dato il via libera alla realizzazione di circa 3.500 nuove abitazioni da costruire negli insediamenti di Ma'ale Adumim, Efrat e Kedar. A sostenere questo provvedimento è stato il ministro Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso e ministro delle Finanze del governo in carica. Durante il mandato di questo esecutivo è stata approvata la costruzione di 18.515 nuove abitazioni da realizzarsi in territorio palestinese.
Ma Netanyahu sta vivendo un momento difficile dal punto di vista politico, lo dimostra anche la conclusione dell'inchiesta statale che ha presentato al governo il suo rapporto in merito al disastro del Monte Meron, allorquando morirono 45 persone, tra cui 16 bambini e ragazzi. Era il 30 aprile del 2021, quando decine di migliaia di ebrei ultraortodossi si riunirono sul Monte Meron, vicino al confine tra Israele e Libano, durante l'annuale pellegrinaggio alla tomba del rabbino Shimon Bar Yochai. La ressa che ne seguì provocò una strage. «Ci sono basi ragionevoli per concludere che Netanyahu sapesse che il sito non rispettava le disposizioni di sicurezza e che il luogo potesse costituire un pericolo per l’afflusso di tanta gente», si legge nel rapporto della commissione. Yair Lapid, leader dell'opposizione, ha esortato Netanyahu a dimettersi: «Non è adatto. Doveva dimettersi il giorno dopo il disastro. Questo è ciò che farebbe qualsiasi altro capo di Stato».
E in merito alla questione degli ostaggi, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, sta diminuendo la speranza di un possibile accordo per il loro rilascio. E lo stesso è per un’eventuale tregua temporanea delle ostilità, in vista del mese di Ramadan, che inizia la prossima settimana.
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