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Ora di dottrina / 132 – Il supplemento

Le modifiche al Credo, il nodo del Concilio di Ferrara-Firenze

Uno dei nodi principali discussi da Greci e Latini riguardò la possibilità di aggiungere o togliere qualcosa dal Credo. Marco di Efeso oppose un’obiezione “di forma” al Filioque. Un’obiezione speciosa che non teneva conto dell’aspetto fondamentale: il contenuto della fede.

Catechismo 06_10_2024
Marco di Efeso, detto Eugenico, venerato dagli ortodossi

Comprendere quali siano stati i contenuti della disputa sul Filioque nelle varie sessioni del Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) è di grande importanza per cogliere la modalità con cui la Chiesa cattolica intende lo sviluppo della comprensione dei dogmi della fede. Allorché Benedetto XVI, nel dicembre 2005, parlò dell'ormai nota ermeneutica della riforma nella continuità, come chiave interpretativa dei dibattuti testi conciliari, non inventò nulla, perché non fece che richiamare un principio che la Chiesa ebbe sempre ben presente, e che trova nel Concilio del XV secolo una realizzazione piuttosto eloquente.

La paziente spiegazione di espressioni apertamente contestate e passibili di ambiguità, l'esplorazione dei testi scritturistici, liturgici e patristici, la comprensione del ruolo della Chiesa sono i tre pilastri su cui ha poggiato la posizione cattolica nello sviluppo dogmatico, in modo particolarmente eloquente durante il Concilio in questione. Pilastri che di fatto portarono una parte dei cristiani greci a comprendere la bontà della posizione dei Latini e accettare dunque con gratitudine la riunificazione con Roma. Solo una parte, però, perché un'altra assai consistente perdurò nello scisma, fino ai nostri giorni. È dunque importante comprendere le ragioni e la logica dei cosiddetti antiunionisti, per poter capire quale sia la forma mentis degli scismi di ogni epoca e luogo.

Uno dei nodi discussi da Greci e Latini riguardò la possibilità di aggiungere o togliere qualcosa dal Simbolo della fede, problema che emerge sullo sfondo di un altro tema chiave: è possibile uno sviluppo dogmatico?

Sebbene fosse chiaro a tutti i partecipanti al Concilio che l'espressione del Filioque fosse presente da secoli nel Credo di molta parte della Chiesa latina, da parte del metropolita di Efeso, Marco Eugenico (1392-1444), principale oppositore alla riunificazione, venne sollevata l'importante obiezione “di forma” al Filioque: la scelta dei Latini di apportare un'aggiunta al Simbolo della fede non era forse in palese contrasto con quanto stabilito dal settimo canone del Concilio ecumenico di Efeso (431), il quale stabiliva che «nessuno può proporre, redigere o formulare una fede diversa da quella definita a Nicea dai santi padri assistiti dallo Spirito Santo»?

Dunque, prima ancora di affrontare il contenuto dottrinale del Filioque, veniva messa sul tappeto la questione della liceità di apportare modifiche a quanto un concilio ecumenico aveva stabilito, in particolare in quella che doveva essere la cartina tornasole della fede, ossia il Simbolo della fede, che, a Nicea prima e a Costantinopoli dopo, era stata messa a punto per smascherare i vescovi ariani e affermare la fede ortodossa.

L'affermazione di Marco Eugenico che i Latini avrebbero contravvenuto al divieto di Efeso parve a molti un pretesto. Tuttavia non ci si poteva sottrarre dall'affrontare la questione, dal momento che i Greci portavano a loro sostegno autori importanti, come san Cirillo d'Alessandria (ca 370-444), venerato da entrambe le parti, che in una sua lettera rivolta al vescovo di Antiochia, Giovanni, scrisse in modo perentorio: «In nessun modo tolleriamo che, da parte di chicchessia, venga infirmata la fede definita, ovvero il simbolo della fede dei nostri padri, a suo tempo convenuti a Nicea; non permettiamo a noi stessi o ad altri, né di sostituire una parola di quelle che vi si trovano, né di violare anche una sola sillaba».

La lettera sembrerebbe chiudere la partita a favore dei Greci per un convincente argomento ex auctoritate; e Marco di Efeso in effetti la considerò argomento decisivo per mostrare che, non essendo lecito aggiungere nulla al Simbolo, i Latini avevano essi stessi commesso un crimine canonico e rotto così l'unità. L'alterazione del Simbolo era stata in effetti la modalità con cui ariani, semi-ariani e nestoriani avevano inteso modificare il contenuto della fede; è noto come i semi-ariani avessero tentato di sovvertire la fede espressa dal Concilio di Nicea, aggiungendo un semplice “iota” all'espressione homoousios (vedi qui), trasformando la consustanzialità del Figlio e del Padre in una somiglianza di sostanza (homoiousios).

E tuttavia il cardinale Giuliano Cesarini (1398-1444) fece notare al rivale la speciosità delle sue affermazioni. Il Concilio di Efeso infatti si riferiva al Simbolo di Nicea; e tuttavia, i Padri di Costantinopoli fecero moltissime aggiunte al Credo niceno, senza che questo comportasse alcuna condanna da parte del successivo Concilio efesino; al contrario si considerò il Simbolo di Costantinopoli uno sviluppo necessario e pertinente del niceno. «Quindi – concluse il cardinale – un credo che sia in armonia di pensiero, dev'essere considerato identico, e non altro. Non viene vietato da questo decreto [di Efeso, n.d.a.], che vieta un'altra fede, cioè una fede contraria e discordante dalla verità».

L'interdizione di Efeso colpiva dunque quelle modifiche che conducevano ad un'altra fede, non una qualsiasi aggiunta apportata per meglio chiarire la medesima fede. I Greci opposero allora un'altra importante lettera , questa volta di papa Agatone (ca 575-681) e di oltre cento vescovi, in occasione del terzo Concilio di Costantinopoli (680-681), nella quale si intimava che «nulla di ciò che è stato canonicamente fissato, sia ridotto, mutato o alterato da aggiunte, ma sia custodito intatto nella lettera e nel senso». Ma, di nuovo, questa lettera era stata scritta dopo che sia il Simbolo che le definizioni di fede avevano già registrato diverse modificazioni; lo stesso Agatone, inoltre, vi aveva allegato la professione di fede Omnium bonorum spes (cf. Denzinger 546-548), che molto aggiungeva al Simbolo di Nicea e pure a quello di Costantinopoli!

Il dibattito permise di mettere in chiaro due questioni importanti. La prima: il contenuto della fede può e deve essere approfondito; talvolta sono le minacce delle eresie a stimolare l'approfondimento, talaltra è una più pacifica contemplazione del mistero. Ma quello che è chiaro è che il depositum fidei non è qualcosa che dev'essere messo sottochiave con lo scopo di preservarlo meglio, ma è il talento che va investito perché produca “gli interessi” attesi dal padrone. Qui entra in gioco quel delicato equilibrio che deve guardarsi da due pericolosi nemici: l'uno che fa morire questo deposito con il proposito di conservarlo, l'altro che lo corrompe con la scusa di farlo crescere. Per questo la Chiesa, mentre non teme di apportare “aggiunte” alle verità di fede espresse, approfondendo ed esplicitando quanto già essa custodisce, mette altresì in guardia dal sovvertimento della fede, che può avvenire sia modificando il Simbolo e le formule dottrinali e definitorie, sia anche custodendo sì la lettera, ma per evitare di aderire allo sviluppo ortodosso della nostra comprensione dei misteri. Quest'ultimo fu il caso dell'archimandrita Eutiche (V sec.), che accusò il patriarca di Costantinopoli, Flaviano (+449), di aver aggiunto delle novità alla fede espressa dai concili ecumenici, sostenendo la “nuova dottrina” delle due nature in Cristo. E lo stesso stava per ripetersi al Concilio di Firenze: i Greci esigevano di conservare la lettera di un Simbolo senza Filioque, ma non si rendevano conto dei problemi che il loro rifiuto della processione anche dal Figlio avrebbe generato.

Seconda fondamentale questione: la Chiesa ha l'autorità per meglio spiegare ed esporre la fede, per difenderla dagli errori, per ammettere nuove pratiche conformi alla fede e respingerne altre difformi. In questo senso, nessun concilio può vincolare un concilio successivo a “non andare oltre” il proprio dettato, né un papa vincolare un suo successore. Ciò che vincola senza eccezione un concilio e il papa stesso è il contenuto della fede, perché nessuno è superiore a quanto Dio stesso ha rivelato. Per questo, come vedremo nel prossimo articolo, i sostenitori del Filioque non si limitarono a rivendicare l'autorità della Chiesa, ma si diedero premura di mostrare come la dottrina della processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio fosse realmente fondata nella Parola di Dio, nell'insegnamento dei Padri e pienamente in armonia con il dogma trinitario definito nei primi concili.



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ORA DI DOTTRINA / 84 - IL SUPPLEMENTO

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